È morto Ernesto Assante, era pieno di vita

È morto Ernesto Assante, semplicemente, non si può dire. Si può dire “è vita, Ernesto Assante” perché lui era fatto della stessa sostanza di cui è fatta la vita. Era fatto di progetti, di intuizioni, di sogni. A volte pensavo che custodisse dentro il suo grande fragile cuore un generatore continuo di sogni. Ti guardava con quei suoi occhi dolci, ti accoglieva con quel sorriso senza fine e iniziava a raccontare il prossimo. Vedeva ovunque e in ogni cosa l’opportunità, se non anche l’urgenza, di raccontare una storia: scrivendola, oppure su un palco, dietro un microfono o davanti una telecamera, non importa. Ernesto era pieno di vita. 

Eravamo diventati amici solo da qualche anno, ma lo conoscevo da molto prima che lui sapesse che esistevo. Ero appena stato assunto a Repubblica e per noi giovanissimi lui e Gino Castaldo erano già due miti. La coppia della musica di Repubblica, i più bravi di tutti (ma anche i più fighi, diciamolo, portatori sani di allegria, competenza e leggerezza, così come l’ha definita Italo Calvino). Non mi ricordo se gli rivolsi mai la parola, credo di no, ma ricordo benissimo che lo chiamai molti anni più tardi: era il 2008 e io ero andato a Milano dove mi avevano incaricato di lanciare l’edizione italiana di Wired, la Bibbia della Silicon Valley. Lo chiamai e gli dissi: vieni a fare il condirettore, ti prego. Non ero impazzito, Ernesto non era soltanto un super giornalista musicale ma era stato uno dei primissimi in Italia a capire la portata della rivoluzione digitale (e infatti era stato nel piccolo gruppo di fondatori del sito di Repubblica). Aveva lo sguardo rivolto al futuro. Quel giorno per la prima volta ci parlammo a lungo e poi mi disse: “No”, ma non per me, nè tantomeno per Wired; mi disse no perché Ernesto era davvero “un giornalista di Repubblica”, si identificava totalmente con quel giornale, e non ha mai smesso di farlo, neanche quando è andato in pensione e il giornale oggettivamente non era più quello per cui aveva lavorato tutta la vita. 

Dal 2013 quando è arrivata “Repubblica delle Idee” ci siamo incrociati più spesso: io portavo sul palco “gli innovatori” cercando di riempire dei piccoli teatri con storie sconosciute di startup e makers, mentre lui e Gino radunavano la folla nelle piazze principali delle città dove andavano con le loro “lezioni di rock”, i Beatles e i Rolling Stones. Nel 2018 per un altro editore curando una mostra fotografica sul 1968 scoprii un suo lato che non conoscevo: la generosità, la capacità di mettersi a disposizione degli altri senza chiedere nulla in cambio. Mi aiutò per la robusta sezione musicale della mostra “Dreamers”. “Come posso ringraziarti?” “Lo hai fatto”, mi disse. Questo suo tratto bellissimo lo ribadì due anni più tardi: era appena arrivato il Covid e con un gruppo di amici avevamo deciso di organizzare una maratona web per unire le case degli italiani in lockdown: “L’Italia chiamò”. Era una follia, in quei giorni era diventato impossibile circolare e tutti gli altri conduttori che avevo coinvolto si erano giustamente tirati indietro. Lui mi disse: “Tranquillo, fratellino, in qualche modo arrivo”. Lo studio lo avevamo allestito in un capannone sperduto alle Idrovore della Magliana, lontano da tutti, soprattutto dai posti di blocco che circondavano Roma. Sembrava di stare su Marte. Eppure poco prima delle 20 Ernesto è davvero arrivato: io ero in diretta ormai da quattordici ore quando gli ho lasciato il posto e lui da quel momento è entrato ed uscito nelle case di tanti di quei cantanti che sembrava di essere a Sanremo. Tutti gli aprirono le porte regalandoci una canzone, Ernesto era uno di famiglia per loro. Non era solo la stima per una grande firma musicale, è che gli volevano davvero bene.  

Ne ebbi una conferma clamorosa per il lancio di Italian Tech: avevamo deciso di fare una serata Next Gen, con ospiti under 30. Mi propose diversi artisti giovani e fortissimi e io rilanciai: e i Måneskin? Avevano appena vinto Sanremo, stavano per vincere l’Eurovision e decollare per sempre. Insomma era impossibile ma lui li convinse a suonare tre brani davanti a cento persone al teatro India. Fu un suo miracolo. Era il 1 giugno 2021, la chiamammo “la festa della Repubblica dei giovani” e quella sera per la prima volta andammo sul palco insieme. Con lui era facile: perché era accogliente, perché era generoso, perché ti faceva sentire affetto vero. Siamo diventati amici su quel palco. 

Da allora non ci siamo più staccati. Ogni settimana o quasi ci vedevamo per progettare qualcosa. Ne abbiamo fatte di cose ma nel cassetto ci sono rimasti i sogni più belli: una grande mostra sugli anni 60, un podcast – ma allegro – di tecnologia, un programma televisivo ecologista e un concertone per la Terra. Non si faranno, lo so, e non solo perché Ernesto è insostituibile ma perché per fare una impresa impossibile hai bisogno di qualcuno che non ti ribadisca che “è impossibile”, perché quello lo sai già; serve uno che ti dica “io ci sto, proviamoci”. 

Il protagonista di un romanzo di Baricco dice che nella vita non è davvero finita finché hai una storia da raccontare e qualcuno a cui raccontarla. Ernesto faceva per due: aveva le storie e sapeva ascoltare. Mancherà tantissimo a un sacco di persone perché erano tantissimi quelli che aveva ascoltato, facendoli sentire importanti, capiti. Mi consola soltanto una cosa: a volte quando penso alla morte, e in questo periodo ci penso spesso, mi dico che l’unico vero desiderio è che mi trovi vivo, che non mi trovi spento, ripiegato, sconfitto, deluso. Ma ancora pieno di vita e sogni, mentre cerco di fare cose belle. 

La morte ha trovato così Ernesto Assante, pieno di sogni e di vita.

Fonte : Repubblica