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“Stiamo pensando di andarcene”. È una frase che sento ripetere sempre più spesso, qui a Milano. Il più delle volte viene lanciata sul tavolo quasi per scherzo, una reazione pavloviana all’interminabile discorso sull’inquinamento urbano, che in questa città è paradigmatico. Altrove lo small talk verte sul meteo, qui sulla qualità dell’aria: “Oggi è peggio del solito”, “Sono due settimane che non vado a correre”; ma anche “Pranziamo fuori, che oggi si respira.”. Ma per quanto quelli che davvero programmano di lasciare la città siano una minoranza, sempre più persone iniziano a valutare la possibilità che la loro permanenza in città sia temporanea.
Naturalmente, a dar forma a questi vaghi progetti intervengono motivazioni diverse. Ma quella dell’inquinamento (sia atmosferico che acustico) sta prendendo sempre più spazio. Ed è risultato particolarmente evidente in questa settimana, quando i livelli di particolato hanno raggiunto punte preoccupanti.
Un problema complesso ma risolvibile
Per capire che questa settimana l’aria a Milano fosse irrespirabile, o quasi, non serviva passare in rassegna dati e tabelle, era sufficiente uscire di casa e percorrere qualche isolato: c’era chi lamentava bruciore agli occhi, altri difficoltà a respirare, altri ancora tosse e nausea; in alcuni momenti la cappa di inquinamento era persino visibile ad occhio nudo. La situazione appariva preoccupante, e i dati la confermavano: sia quelli del tanto vituperato ente privato che riempie i social di discutibili classifiche, sia quelli provenienti dalle misurazioni ufficiali. Per oltre dieci giorni di seguito il livello di PM10 ha superato la soglia massima consentita di 50 millesimi di grammo per metro cubo, nel frattempo i livelli di PM2.5 arrivavano a toccare livelli di 24 volte superiori alla soglia raccomandata dall’OMS su base annuale.
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Una situazione emergenziale, ma tutt’altro che nuova: la qualità dell’aria a Milano, come nel resto della pianura padana, è scarsa da diverso tempo, e negli ultimi vent’anni, nonostante i pur utili provvedimenti adottati, si è mantenuta parecchio al di sopra dei limiti annuali indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non si tratta dunque di un problema che si possa risolvere dall’oggi al domani, ma nemmeno di un problema irrisolvibile.
La pianura padana è particolarmente predisposta all’accumulo di inquinanti, racchiusa com’è tra le Alpi e gli Appennini, soprattutto in inverno, quando l’inversione termica favorisce l’intrappolamento e l’accumulo di particolato. Com’è intuibile, però, questa predisposizione inciderebbe molto di meno se la pianura padana non fosse anche una delle zone più densamente popolate e industrializzate d’Italia. Se a Milano, come a Torino, come a Cremona, come a Padova, l’aria raggiunge spesso livelli tossici, è per via di una serie di concause, tra cui ne spiccano tre: il riscaldamento domestico, gli allevamenti intensivi e i trasporti (in special modo le auto private). Tutti settori su cui si può e si dovrà intervenire, e bisognerà farlo alla svelta, se vogliamo evitare altre decine di migliaia di morti.
Si può confrontarsi sui metodi, sulle iniquità e i danni che possiamo scongiurare nel percorrere questo percorso di transizione, possiamo discuterne animatamente ed è giusto che ci sia un dibattito: ma possiamo farlo solo se prendiamo atto della gravità del problema.
Una negazione (in parte) collettiva
All’inizio di questa settimana è diventato virale un video in cui il sindaco di Milano Beppe Sala negava la possibilità che Milano in quel momento fosse, come suggerivano alcune classifiche condivise dall’azienda privata svizzera IQAir, la terza città più inquinata al mondo. Ma se è probabile che le classifiche di IQAir non siano attendibili (non rispondendo a criteri di organicità e omogeneità nella raccolta dei dati), è invece vero che i valori che ha registrato da gennaio a oggi sono praticamente sovrapponibili a quelli rilevati da ARPA.
Ma il punto è un altro. Perché non è tanto importante che Milano sia la terza, la sesta, la decima o persino la ventesima città più inquinata al mondo, quello che conta è che la qualità dell’aria in pianura padana sia estremamente scarsa, e puntualmente d’inverno si raggiungano situazioni drammatiche, in cui l’aria finisce per presentare gravi rischi per la salute fisica e mentale dei cittadini.
Abbiamo già visto come l’inquinamento atmosferico sia una delle minacce sanitarie più sottovalutate in assoluto, come determini una maggiore insorgenza di attacchi cardiaci, ischemie, ictus, aterosclerosi, insufficienza cardiaca, oltre ad incidere anche sulle patologie endocrine e gastrointestinali, sull’insorgenza diabete e obesità, sull’andamento delle gravidanze e sul decorso delle patologie neurologiche, e persino su depressione e tendenze suicide.
Queste cose si sanno da tempo, eppure siamo ancora in tragico ritardo nell’implementare le misure necessarie ad arginare il problema. Perché? Una delle ragioni è che l’inquinamento atmosferico, proprio come la crisi climatica, non presenta le caratteristiche giuste per attivare il nostro sistema d’allarme: possiamo leggere dati su dati, prendere atto razionalmente di stare respirando aria tossica per giorni e giorni di seguito, ma gli effetti di questa esposizione non ci appaiono come immediatamente riconoscibili, e la città tutto sommato ha lo stesso aspetto di sempre. Il nostro cervello si convince di trovarsi in una situazione di sostanziale normalità (o in una situazione eccezionale trascurabile), e questo anche per colpa di una serie di distorsioni cognitive che ci rassicurano sul fatto che la situazione non sia così tragica, che creerà problemi a qualcuno che non siamo noi, e che comunque qualcuno si attiverà per evitare le conseguenze peggiori.
Per ragioni evolutive che abbiamo già approfondito, il nostro sguardo sul mondo è offuscato da limiti cognitivi di questo tipo, ed è anche per questo che chi ha interesse a sminuire il problema e a cacciarlo in fondo alla lista di priorità, ha gioco facile a far passare l’idea che l’emergenza sia solo un’invenzione buona per i social e gli slogan.
Una negazione politica
Mentre i cittadini della pianura padana boccheggiavano sotto la cappa di smog, il governo italiano otteneva in sede UE una deroga, limitata alle regioni della pianura padana, sull’adeguamento ai nuovi limiti proposti dalla nuova direttiva europea sulla qualità dell’aria. Se infatti fino ad oggi la direttiva UE fissava i limiti per il particolato fine (PM 2,5) a 25 microgrammi per metro cubo, l’obiettivo è portare questa soglia a 10 μg/m3, un valore che resta comunque doppio rispetto alle indicazioni più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Se la richiesta del governo italiano è stata presa in considerazione è perché l’accordo tra Parlamento Europeo e Consiglio Europeo prevede la possibilità di estendere la scadenza dal 2030 al 2040 per quelle are in cui il rispetto della direttiva risulterebbe irrealizzabile “a causa di specifiche condizioni climatiche e orografiche”. Siccome per la pianura padana è più difficile ridurre l’inquinamento, insomma, può prendersi più tempo. Governo e regioni ora sbandierano questo risultato come una vittoria politica, il che è piuttosto paradossale: proprio perché sono così vulnerabili all’inquinamento, le regioni del Nord hanno tutto l’interesse ad adottare in modo drastico misure che, seppur più impegnative sul breve termine, porterebbero enormi benefici sul medio-lungo termine.
Lo scorso 18 febbraio l’Eurostat ha rivelato che l’Italia è di gran lunga il paese con il maggior numero di auto per abitante (684 ogni 1000), un record che va ad aggiungersi a una sconfortante collezione di primati, non ultimo quello che ci vede capofila per il numero di decessi attribuibili all’inquinamento urbano, con 80.000 morti premature l’anno. È chiaro che uno scenario simile non dovrebbe indurci a richiedere deroghe, bensì a predisporre misure drastiche e immediate. Rimandando la questione di dieci anni si potrà anche consentire una transizione più morbida (posto che la deroga non sia solo una scusa per rimandare il problema), ma il prezzo da pagare in cambio sono migliaia di morti evitabili.
Prepararsi a ricordare
Mentre scrivo questo pezzo la pioggia ha finalmente cominciato a lavare l’aria di Milano, e già il problema sembra un po’ meno urgente. Chi stava pensando di andarsene, me compreso, ha rimandato quel pensiero a data da definirsi. Probabilmente il peggio è passato, per quest’anno, e fino al prossimo inverno non vedremo picchi d’inquinamento come quello di questa settimana. Tra poco la pianura padana sarà meno vulnerabile all’inversione termica, i venti e le piogge disperderanno il particolato e la situazione apparirà molto meno allarmante. A quel punto è probabile che ci dimenticheremo di questa emergenza: dimenticheremo l’aria irrespirabile, il mal di testa, le fantasie di fuga, e anche le polemiche social sulle classifiche di inquinamento.
Per questo è importante prepararci attivamente a ricordare questi momenti. Perché è in questi momenti che il velo di normalità illusoria, che per buona parte dell’anno ci consola e rassicura, si squarcia per mostrare la situazione emergenziale in cui ci troviamo. Sarà fin troppo facile dimenticarsene quando arriverà la primavera, e sarà così facile perché l’atto di dimenticare è una qualità strutturale della nostra mente, un protocollo di manutenzione e apprendimento. La possibilità di dimenticare certi avvenimenti – o certe emozioni – ha consentito ai nostri antenati di sviluppare comportamenti più flessibili, di prendere decisioni in modo più razionale, basandosi sulla situazione in cui si trovavano e non su quella ansiogena in cui avevano sviluppato traumi. I nostri cervelli funzionano ancora così: siamo progettati per dimenticare.
Per questo dobbiamo fare uno sforzo in più, oggi, per custodire un ricordo duraturo ed efficace di questi giorni irrespirabili, e prepararci a ricordare questa emergenza anche a giugno, quando l’aria sarà più respirabile e i temi caldi saranno altri, ma avremo l’opportunità di fare la differenza alle elezioni dei nostri rappresentanti in UE.
Fonte : Fanpage