La zona d’interesse Recensione: il film definitivo sulla banalità del male

C’è un detto quando si parla di strumenti di tortura: è peggio l’immaginazione del dolore che si sta per provare che il dolore stesso. E quindi la vittima, se sottoposta a interrogatorio, parlerà più facilmente solo raffigurando ciò che le sta per succedere. È quello che fa Jonathan Glazer con La zona d’interesse: possiamo immaginarci perfettamente quello che sta accadendo, non serve vederlo. L’effetto cinematografico creato dal regista britannico è talmente asettico nella sua quotidiana malvagità da farci crescere dentro un conato carico di nauseante disgusto impossibile da ignorare.

Noi sappiamo e non vediamo. Così come la famiglia di Rudolf Hoss, comandante di Auschwitz, che con lui viveva letteralmente a ridosso del campo di concentramento durante il genocidio. Sapeva benissimo e non aveva bisogno di vedere, perché lì stava bene, perché era tutto normale, perché il concetto della banalità del male non è mai stato così lancinante come in questo film.

La zona d’interesse e il male quotidiano

Ma dov’era la gente qualsiasi quando un genocidio accadeva? Quante volte abbiamo sentito questa domanda? Beh, molti erano lì, a un passo, trascorrendo i weekend al fiume e piantando i fiori, accarezzando il cane e spegnendo la luce prima di andare a dormire. Come faremmo tutti. Come facciamo tutti. Solo che questi tutti erano anche (ed erano tanti) Rudolf Hoss e la sua famiglia, con la casa letteralmente attaccata ad Auschwitz. Lì, a sentire gli spari delle fucilazioni mentre prendevano il sole in giardino.

La zona d’interesse mette in scena il fascino discreto dello sterminio degli ebrei, in una maniera mai così annichilente per lo spettatore, che si ritrova scomodo fin dal nero dello schermo che lo inghiotte subito, appena comincia il film. Perché il nazismo di Rudolf Hoss (e in senso lato di quasi tutti i personaggi che vediamo) non è propriamente fanatico, non è mostruoso: è quotidiano, meccanico, sterile. Ciò che Jonathan Glazer ci costringe a vedere non è il mostro in prima pagina, ma quello che sfoglia il giornale tutti i giorni.

L’importanza della regia di Jonathan Glazer

E come potevamo non guardare con la mano di Jonathan Glazer sopra gli occhi? È quasi difficile descrivere la perfetta aderenza tra la regia di Glazer e la narrazione de La zona d’interesse. Tutto è frammentato a compartimenti stagni, caustico nel senso più cauterizzante del termine, come ferite che la memoria ha ossidato ma ancora lì, dietro una tenda che nasconde una ciminiera o una doccia chiusa perché gocciolava acqua mentre centinaia e centinaia venivano aperte oltre un semplice muro.

La perfezione registica di Jonathan Glazer torna agli albori del cinema, ai fenomeni cognitivi del montaggio, come tanti Effetti Kulesov costruiti nella stessa inquadratura, tra campo e controcampo di sterminio. La macchina da presa si muove pochissimo, è tutto spezzettato in ripetizioni banali della vita, mentre dietro l’angolo si progetta e si porta avanti una delle più grandi tragedie di cui l’umanità è stata capace. Ed è qui che irrompe il sonoro di Mica Levi, il vero collegamento tra le due zone divise dal muro, che assieme agli scampoli visivi ci ricorda senza bisogno di mostrare cosa sta succedendo, ma con un’affilata delicatezza che ci apre gli occhi a metà con pochissime note.

Il conato

A volte ci chiediamo se e come sia possibile trovare un modo nuovo per raccontare l’orrore atavico dell’Olocausto, dopo che il cinema lo ha fatto in ogni maniera possibile. La zona d’interesse è la risposta a questa domanda, perché fa un passo ancora oltre pur restando indietro, ci costruisce nello stomaco un senso di nausea disturbante con la quale dobbiamo fare i conti inquadratura dopo inquadratura, cadenzate come una marcia tranquilla verso il male.

Jonathan Glazer riesce in tutto questo senza mostrare davvero nulla, soltanto quello che è successo dall’altra parte del muro, e così facendo ottiene un effetto talmente abbacinante che consegna la nostra vista ai colori e alla loro privazione che campeggiano sullo schermo, vero monolite che non possiamo smettere di guardare. Questo anche grazie a Sandra Huller e Christian Friedel, Hedwig e Rudolf, le persone comuni diventate comuni assassini e complici qualsiasi, nell’indifferenza sterminatrice che ha segnato per sempre il mondo intero (vi lasciamo anche la nostra recensione di Anatomia di una caduta con Sandra Huller protagonista).

Ma la Storia non condona la scena muta, e questo Jonathan Glazer lo sa benissimo, inghiottendo Rudolf e in senso lato tutti quanti, per rammentarci chi ha continuato la sua vita come nulla fosse durante lo sterminio di un popolo. Perché ancora una volta bisogna ricordarlo, affinché non si ripeta un genocidio nell’indifferenza generale. Qualsiasi genocidio.

Fonte : Everyeye