Marco Rossetti è l’attore che interpreta, sin dalla seconda stagione, il ruolo di Damiano Cesconi in Doc-Nelle tue mani. Il suo lavoro gli ha permesso di affrontare emozioni che mai aveva vissuto nel suo privato, come racconta in questa intervista dove tratteggia, tra le altre cose, il valore dell’ascolto, ma anche della noia.
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Quando raggiungo a telefono Marco Rossetti è nelle vicinanze di San Martino di Castrozza, in Trentino, dove si trova già da qualche settimana per girare le nuove puntate di Blackout, la fiction ad alta quota di Rai1, che lo ha visto tra i protagonisti nel 2022 e che tornerà il prossimo anno in tv. Un periodo florido per l’attore romano che, dopo essere stato Nathan in Un passo dal cielo, troviamo ogni giovedì in prima serata nei panni di Damiano Cesconi in Doc-Nelle tue mani 3.
Questi sono solo alcuni dei ruoli, nient’affatto casuali, che gli hanno permesso di indagare, a fondo, aspetti del suo vissuto, attraverso le vite di persone diverse, ma intimamente connesse con il suo essere poliedrico e irrequieto. Dell’importanza della noia, ma anche del saper ascoltare tanto sé stessi, quanto chi ci circonda, Rossetti ne parla con estrema naturalezza: “Credo che sia necessario ascoltare di più, in questa bulimia di contenuti, di discorsi. Ascoltare l’altro e sé stessi”.
Dopo Nathan in Un Passo dal Cielo, di nuovo a contatto con la natura. È proprio la montagna che ti chiama.
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Ha un fortissimo ascendente su di me, ed è stata una coincidenza incredibile perché in un anno sono stato praticamente sei mesi in montagna. Non una cosa da tutti i giorni. Devo dire che in montagna mi ritrovo, la tranquillità credo sia benefica da tanti punti di vista, sei a più contatto con la natura. Poi Nathan in Un passo dal Cielo era proprio l’uomo dei boschi.
Marco Rossetti è Nathan in Un Passo dal Cielo
Possiamo dire che sia stato un anno piuttosto denso. Ti abbiamo visto in varie fiction Rai, anche in Odio il Natale su Netflix, temi possa essere un’arma a doppio taglio il fatto che il pubblico ti veda così frequentemente?
Così come c’è stata, e c’è tuttora, una bulimia di contenuti, c’è anche una bulimia visiva da parte dello spettatore nei confronti di un attore, però è anche questione di incastri. Capita di essere in progetti che riempiono degli spazi non troppo ravvicinati tra loro e ti trovi nella condizione di dover fare delle scelte. È un periodo fortunato per la mia carriera, magari faccio un appello al pubblico: “Non vi annoiate di vedere questa faccia”.
Parlavi di scelte, cosa ti spinge ad accettare un ruolo piuttosto che un altro?
La possibilità di stimolarmi, mettermi in una storia che mi faccia conoscere cose che non so, aspetti umani che nel privato non affronterei. Quindi Nathan, uno con l’arco e le frecce mi incuriosisce, Carlo in Odio il Natale, un imprenditore ricchissimo, veneto, sulla sedia a rotelle, che ha avuto un incidente così drastico, allora lo valuto. Non sono quel tipo di attore che prende tutto, anche se il mio lavoro oggi c’è, stasera non più.
Il fatto di essere sotto l’occhio attento del pubblico porta inevitabilmente ad un giudizio. Come lo vivi, lo elabori?
Noi attori, io in particolare, sono cresciuto con il dito puntato contro di me, non mi dico mai “Oh, ma che bravo”, ma la pacca sulla spalla ogni tanto me la dò. Poi entra in gioco l’esperienza umana e artistica. In questa costante messa alla prova, i no ricevuti sono tantissimi. Sono stato un attore giovane, un attore d’accademia, ho dovuto studiare, ho imparato sul campo, non posso dire di avere una dote, se il talento è innato poi l’ho dovuto affinare. Per cui il no, non era solo un giudizio negativo degli altri, ma qualcosa su cui dovevo lavorare. Nel momento in cui prendiamo la sconfitta come un qualcosa su cui migliorarci, ecco che allora, ad un certo punto, forse, il sì arriva.
Entriamo nel mondo di Damiano Cesconi, il tuo personaggio in Doc. In questa terza stagione è meno schivo, meno arrabbiato, ma pur sempre tormentato. Di cosa non riesce a liberarsi?
Non riesce a liberarsi di Giulia, nella misura in cui vive l’amore come un qualcosa che smuove. È mosso da questo sentimento per lei, ha accettato il metodo di Doc, ha un ascolto nei confronti del paziente che in precedenza non aveva, resta un’irrequietezza che è umana.
Marco Rossetti e Matilde Gioli, alias Damiano Cesconi e Giulia Giordano
Un’irrequietezza che nasce dal rifiuto.
Nel momento in cui l’amore con Giulia non è corrisposto, lui che vive le sue relazioni come qualcosa di superficiale, non riuscire a mettere a fuoco questo suo stato d’animo, il che lo rende tormentato. Ma è questa la cosa bella, della vita in generale. Se fosse tutto troppo facile, ci si annoierebbe, lui combatte con questi mostri. Non solo prendersi Giulia, ma anche riuscire ad accettare un amore non corrisposto, una cosa che dobbiamo imparare ad accettare un po’ tutti, i no in amore. È il paradosso della vita, quando uno accetta la propria fallibilità ha già fatto passi avanti.
La tua storia personale ti ha portato a dover vivere gli ospedali fin da bambino. Dopo hai sviluppato un rifiuto nei confronti di quel mondo?
Sì, chiaramente. Da bambino, da adolescente non capisci, quando sei un po’ più grande tiri le somme. È un qualcosa che mi ha cambiato la vita, quando sei piccolo vivi con la paura di tante cose, quello che ho provato me lo sono portato dietro per un sacco di tempo. È stata anche quell’arma che mi ha permesso di essere più empatico, è un qualcosa che ti condiziona, ti forma.
Secondo te la sofferenza cambia le persone o fa emergere qualcosa che già c’era dentro di loro?
Entrambe le cose. Cambia e fa emergere quello che già c’è e magari lo fa vedere in maniera più vicina, più vivida, e cambia nel bene e nel male. C’è quella frase semplice, cioè che apprezzi di più le piccole cose se hai sofferto e hai visto il dolore da vicino, posso dire che è vero, poi scivola tutto più facilmente.
Tra l’altro si dice sempre che per essere un buon attore l’empatia è fondamentale.
L’empatia sicuramente serve, poi per quanto si possa essere empatici, subentra il mestiere, bisogna riuscire ad accomunare queste due cose. Ce la metto tutta, altrimenti questo lavoro sarebbe solo superficie, per certi aspetti lo è, è pur sempre un lavoro, ma è anche la mia più grande passione. Ma c’è una cosa di questo mestiere che, a mio avviso, è più importante dell’empatia.
Cosa?
Questo lavoro mi dà la possibilità di tornare ad ascoltare. Viviamo in un periodo storico così rapido, repentino, bulimico sotto tantissimi aspetti, sia per quanto riguarda i contenuti, sia per l’attenzione che si presta da un discorso all’altro. Ci si dimentica di ascoltare chi ci circonda, e ci si dimentica di ascoltare se stessi.
Tornare ad ascoltare, ma nel frattempo non solo reciti, canti e scrivi. Insomma, vuoi farti ascoltare, parafrasando Sorrentino, avrai qualcosa da raccontare?
È come dire, perché fai questo lavoro, c’è la necessità anche di andare nelle vite degli altri, un po’ perché la nostra non ci basta, un po’ perché la nostra ci spaventa, per tante cose. Comunque sì ho delle cose da raccontare. Penso, spero. Chi mi sta davanti non si annoia, ma questo non significa che devono stare tutti ad ascoltarmi.
Fonte Instagram
Percepisco che la noia è quasi un tabù per te.
No, anzi. Quando mi capita di prendere i mezzi pubblici, spesso incontro ragazzi che tornano da scuola e ogni volta mi deprime e mi spaventa, il fatto che stiano tutti col telefonino, nessuno che interagisce con l’altro. Quando con i miei amici prendevamo l’autobus era un momento per annoiarsi, per guardare la città, stare insieme, farci scherzi, per stare con i propri pensieri. Sono un grande affezionato della noia e di tutti i momenti più calmi, lenti. Però sono anche uno che si blocca poco la testa, sono un casino apro parentesi da tutte le parti.
Ma queste parentesi le chiudi?
A volte sì. Però i finali aperti sono un qualcosa che mi affascinano da sempre.
Una delle tematiche più affrontate in Doc è il rapporto col passato, con i ricordi. Tu li tieni lontani o li vivi?
Li tiro fuori tutti i giorni, almeno una volta al giorno, se non dieci, forse cento. Vivo col sorriso, con nostalgia, con malinconia, con felicità, ma tutti i santi giorni mi capita sempre di pensare a qualcosa e me la tengo stretta. Trovo che la memoria sia la massima bellezza che un essere umano abbia.
Ti spaventerebbe perderla come è accaduto ad Andrea Fanti?
Sì, sono spaventato dalle malattie neurodegenerative. Tutti i giorni una persona dovrebbe ricordare che ha la possibilità di sapere da dove viene, che fa, chi è la sua famiglia, i suoi amici, quello che ha vissuto. Col passato ho un ottimo rapporto, a volte lo maledico, perché gli dico “ma perché non torni”, poi ci faccio i conti e dico “vabbè dai, presente, te voglio bene pure a te”.
Cosa vorresti far tornare dal passato?
Il Marco piccolo, vorrei dargli una pacca sulla spalla e dirgli “vai tranquillo, vai a sbagliare, continua a sbagliare che non succede niente”.
I tuoi ruoli, forse anche per questioni d’aspetto e prestanza, sono sempre stati un po’ tenebrosi. A quando una prova comica? Ti ci vedresti?
Assolutamente, Carlo di Odio il Natale ne è stato l’esempio. Ho scritto una serie anni fa con Pippo Crotti, che si chiama Sbirranza, che è totalmente incentrata sull’aspetto demenziale alla Starsky e Hutch, di questi due poliziotti. Poi ho questo spettacolo che si chiama Malatto Unico, in cui i miei brani, le mie poesie, i miei monologhi sono sia introspettivi, ma sempre in una chiave leggera, poi ci sono proprio quelli divertenti, sempre con una profondità perché non mi piace rimanere in superficie. Col phisique du role che ho mi è capitato di avere ruoli più tenebrosi, quando capiranno di avere davanti il Jim Carrey italiano, cambierà qualcosa (ride ndr.)
Pilar Fogliati e Marco Rossetti in Odio il Natale 1
A quando, allora, un live del tuo spettacolo?
Quando fortunata o sfortunatamente finisce questo periodo. Da una parte per fortuna, dall’altra non riesco ad incastrare altre cose, lavorando tanto sulla serialità. Anche con i miei musicisti mi rincorrono, quando sarà torneremo ai live, per darla in barba all’intelligenza artificiale.
E tra un set e l’altro, con così poco tempo a disposizione, come lo impieghi?
Mi riposo, ne ho la necessità e poi leggo. Leggo spesso, leggo molto.
E ora che stai leggendo?
Sto leggendo L’insostenibile leggerezza dell’essere, un libro che avevo snobbato perché era sulla bocca di tutti, e io dicevo ma no, ‘sto Kundera, ne parlano tutti e invece è un capolavoro.
Ci sono molte parti che meritano di essere ricordate in effetti.
Assolutamente. Orecchiette, sottolineature, tutto. I libri li violento con la penna, e quando mi dicono che si fa con la matita, rispondo “no questa penna deve rimanere nei secoli dei secoli, la matita sbiadirà, mentre la penna rimarrà per sempre, così quando questo libro fra cento, duecento anni finirà tra le mani di qualcuno, troverà i miei pensieri e io sarò felice”.
Fonte : Fanpage