Questo è un estratto della lezione che ho tenuto il 5 febbraio 2022 nel mio corso di Digital Law nell’università di Chieti-Pescara. È passato un anno, ma l’analisi è ancora drammaticamente attuale
Cosa fa nascere un social network?
Questa, dal mio punto di vista, è la parte più disturbante della lezione, perché i social network moderni, e quindi centralizzati, sono il frutto di una visione antropologica basata sull’idea che le persone si possano categorizzare per prevederne e orientarne il comportamento.
In altri termini, dove il mondo dei newsgroup o il mondo di IRC erano mondi basati sulla libertà della persona di essere quello che voleva, di relazionarsi con gli altri come preferiva, oggi i social network creano ancora una volta l’ennesima gabbia dorata, che come vi ho detto può essere una gabbia ma è dorata, o può essere dorata ma è una gabbia.
Quindi nella sostanza il presupposto antropologico sulla base del quale si costruiscono sistemi centralizzati del genere è quello del considerarci dei cani di Pavlov un po’ più – o forse un po’ meno – evoluti.
Come detto, ogni social network soddisfa un’audience in termini di età, interessi e canale percettivo di comunicazione. Tutto questo è finalizzato non a dare una migliore esperienza, una migliore fruizione del servizio, come pure si legge nelle varie informative sul trattamento dei dati personali: “Ti facciamo la radiografia e la risonanza magnetica perché ti vogliamo dare la migliore esperienza possibile nella fruizione del nostro servizio”.
Non è così: tutto questo è finalizzato alla creazione di una riserva di caccia alla quale nessuno può accedere tranne il signore, il latifondista, il proprietario della riserva che decide se oggi caccia la volpe, domani caccia il capriolo o il cinghiale, ma comunque caccia qualcuno o qualcosa.
La creazione di un social network è strettamente quindi connaturata al concetto di cluster, cioè alla possibilità di catalogare, di raggruppare più individui in determinate categorie.
Ma come ce li metto?
Posso chiedere loro di dirmi quali sono le loro preferenze, o molto più subdolamente, cerco di capire io a cosa sono interessati.
Social network, persona e individuo
È a questo punto che cominciamo a inserire il concetto di privacy intesa come protezione delle informazioni personali: ciascuno di noi ha una sfera personalissima che non condivide con nessuno e, al contrario, ha una parte pubblica che è quella che garantisce, che consente l’interazione con gli altri.
Chi di voi ha studiato il teatro classico sa che esisteva il concetto di persona, cioè la maschera che veniva indossata dall’attore e che attribuiva per il fatto di essere indossata un determinato ruolo al soggetto che in quel momento si trovava sul palco.
Ciascuno di noi ha almeno una persona pubblica e una persona privata, ma in realtà il concetto è molto più articolato ed è spiegato bene dal modo in cui i giapponesi si relazionano con questi temi.
Nel vettore dell’interazione sociale, un giapponese è educato ad avere una sfera di comportamento che è solamente propria, esclusiva e riservata a se stesso, nemmeno ai suoi genitori, ai suoi cari, alla sua famiglia. Poi c’è una sfera leggermente più ampia che quella della famiglia, poi c’è quella della sua cerchia sociale e poi c’è la cerchia dei tanin, cioè degli estrani, quelli nei cui confronti non c’è nessun tipo di relazione.
Social network e profilazione
Quindi, tornando al punto, l’obiettivo della profilazione non è tanto quello di catturare la persona pubblica, perché quella è facile da prendere. L’obiettivo della profilazione è, invece, quello di riuscire ad arrivare al centro di questi cerchi concentrici, cioè all’individuo che si nasconde dietro la persona, alla sfera intima che è quella che muove il nostro comportamento.
Se ci fate caso, quanto più parliamo di comportamenti pubblici tanto più questi comportamenti sono sostanzialmente di tipo razionale: venite a lezione perché dovete sostenere l’esame, state a sentire quello che vi dico perché è funzionale all’obiettivo che dovete raggiungere. Ma già quando decidete di andare a fare shopping e comprare qualcosa, le vostre decisioni sono meno razionali e più istintuali. Quando, poi, dovete decidere se una persona può diventare vostra amica oppure no, al di là dell’abuso che si fa della parola, appunto, sui social network, le decisioni diventano ancora meno razionali e sempre più istintive o comunque afferenti alla vostra sfera individuale e personale.
Quindi, l’obiettivo della profilazione, ed è il motivo per cui si presuppone che l’accumulazione di dati consenta questo risultato, è arrivare a cogliere l’intimità della persona. Perché se riesco a capire che cosa c’è dietro la persona, dietro la maschera, allora riesco a orientare il comportamento di quell’individuo per raggiungere il mio obiettivo, che può essere vendergli un costoso paio di cuffiette da cellulare oppure magari indurlo a votare per un certo politico oppure per un altro.
Capitalismo della sorveglianza vs capitalismo del controllo
Non voglio dire che i social network siano l’impero del male, però è giusto che abbiate anche questa versione, questa lettura di questo fenomeno economico e industriale, per anticipare un tema che è quello del capitalismo della sorveglianza.
Avrete letto che, un po’ dappertutto, si parla estensivamente appunto del grande fratello, del capitalismo della sorveglianza e via discorrendo, ma a valle del ragionamento che stiamo facendo oggi, è chiaro che il tema non è quello della sorveglianza, ma è quello del controllo. Serve a poco sorvegliare se di questa sorveglianza non me ne faccio niente. Quindi l’obiettivo ultimo non è sorvegliare per sorvegliare, ma è sorvegliare per modificare il comportamento.
Numerosità degli utenti e diffusione della piattaforma come presupposto del controllo efficiente
È intuitivo, quindi, concludere che perché un social network funzioni servono tanti utenti.
È vero che la statistica ci consente di derivare delle conclusioni da un numero relativamente basso, da una popolazione relativamente ristretta in termini di numero a condizione, come sapete, che il campione sia in equilibrio e via discorrendo, però dal punto di vista della finalizzazione del social network, i numeri contano.
Qual è l’impatto di questa affermazione?
Innanzitutto che dal punto di vista tecnologico ci debba essere una diffusione globale della stessa piattaforma. Se volete è lo stesso approccio di Starbucks o McDonald: in qualsiasi parte del mondo ci si trovi, si cerca un McDonald o uno Starbucks perché sono familiari, perché ci danno quella tranquillità per cui in un luogo estraneo c’è almeno un punto nel quale sappiamo che cosa trovare. Quindi invece di arricchirci della nuova esperienza di andare in un posto che non conosciamo, facciamo magari 10.000 chilometri per andare in un posto che sappiamo esattamente che cos’è senza nemmeno andarlo a visitare, senza necessità di vederlo.
Quindi il primo impatto della diffusione globale della stessa piattaforma è l’abbattimento della diversità. Ed è paradossale che questo accada in un momento nel quale il rispetto delle diversità è una parola d’ordine.
Controllare i device per controllare gli individui
La diffusione globale della stessa piattaforma significa diffusione globale degli stessi strumenti per farla funzionare.
Perché questo? Perché se io ho degli strumenti differenziati che non sono in grado di accedere alla piattaforma, perdo la possibilità di guadagnare, di agganciare quegli utenti che non usano un particolare strumento per collegarsi alla rete. Da qui l’alleanza fra i produttori di piattaforme e i produttori di strumenti che portano per esempio aziende come Google a produrre il proprio smartphone Android, ad avere il proprio sistema operativo che poi viene licenziato ad altri produttori; ed è il motivo per il quale, in passato, ci sono state ad esempio polemiche fra Facebook e Apple nel momento in cui Apple aveva deciso di limitare le funzionalità di raccolta dati possibili attraverso gli iPhone, il che si traduceva in una limitazione dei dati che Facebook poteva arrivare ad ottenere.
Controllare l’interfaccia per cancellare l’individualità
Una cosa un po’ più subdola che deriva dal controllo delle interfacce è che dal punto di vista tecnologico creare tanti utenti significa diffondere globalmente lo stesso modo di utilizzare la piattaforma.
Se voi prendete un indiano di Bangalore, un messicano di Tijuana, un nordamericano di New York e li mettete in una stanza, non potete pensare a persone più diverse fra di loro per antropologia, per cultura, per sensibilità, ma nel momento in cui arriva una notifica WhatsApp fanno tutti quanti la stessa identica cosa, compiono tutti quanti lo stesso identico gesto.
Questo è il potere dell’interfaccia.
Usare l’interfaccia per attribuire diritti
Se sono in grado di imporre o di diffondere l’utilizzo della mia interfaccia, condiziono il comportamento delle persone, ma condiziono anche la loro possibilità di esercitare i loro diritti, come dimostra l’esempio che segue.
Se nell’interfaccia di funzionamento di una piattaforma di messaging inserisco il bottone o la funzionalità che abilita la cancellazione di un messaggio anche sul terminale del destinatario, ho dato alla persona, o meglio, ho deciso unilateralmente di dare all’utente, una possibilità appunto di eliminare messaggi inviati per errore.
Se decido di non farlo è evidente che la non disponibilità di questa opzione limita un “diritto” dell’utente, come per esempio l’aspettativa di non dover per forza subire le conseguenze di un messaggio non voluto, inviato in modo inconsapevole.
In altri termini, il controllo sull’interfaccia mi consente di stabilire qual è la sfera di comportamento consentita all’utente senza che qualcun altro possa avere voce in capitolo.
Pensate alla decisione di inserire un pollice verso a fianco di un pollice retto, cioè il dislike.
Il fatto che un determinato contenuto attiri milioni di like, non ci dà nessuna informazione su quante persone invece non lo hanno gradito. Ma decidere se inserire anche la possibilità di manifestare il dissenso è una cosa che per esempio dal punto di vista politico potrebbe avere delle conseguenze pesantissime.
Usare la piattaforma per privatizzare il dibattito pubblico
Immaginiamo di vivere in un mondo perfetto dove tutti quelli che esprimono la propria opinione sono effettivamente persone umane e che manifestano il proprio pensiero in buona fede. Ipotizziamo, poi, che il governo faccia un annuncio di una certa scelta politica che attira otto milioni di valutazioni negative.
A quel punto il governo che cosa fa? È coerente con la volontà popolare e fa marcia indietro? Prende atto di essere stato sfiduciato e il Presidente del Consiglio rimette il mandato nelle mani del Presidente della Repubblica? Oppure non si preoccupa di questo dissenso e tira dritto sull’adozione di quella policy annunciata?
Considerato che tutto questo avviene su un servizio privato, non su una risorsa politica messa a disposizione dal Parlamento o dal Governo, capite come diamo la possibilità ad un soggetto privato di interagire direttamente con le scelte di un esecutivo.
Controllare la disintermediazione della rappresentanza politica
Se un partito politico decide di utilizzare una piattaforma online come alternativa al meccanismo dei congressi locali, regionali e poi nazionali, per definire le proprie linee politiche, non è un problema, perché sono scelte interne alle dinamiche democratiche di funzionamento di un’aggregazione, di un corpo intermedio.
Ma quando c’è una disintermediazione della rappresentanza politica, e questa disintermediazione viene gestita da un soggetto privato, che non controlla l’identità di chi esprime la propria opinione, anzi ha tutto l’interesse a polarizzare i contenuti, le posizioni in modo da generare traffico e dati, beh allora qualche problema me lo pongo sulla idoneità o sull’accettabilità che un servizio di questo genere implica nel momento in cui si tratta di definire non solo comportamenti sociali, ma anche contenuti di tipo politico e giuridico.
Omologare i riti per eterodeterminarne i fini
In conclusione, quindi, è evidente che la diffusione dello stesso modo di utilizzare la piattaforma è l’ennesima declinazione della perdita di originalità e della perdita di individualità, cioè nella sostanza di una omologazione culturale in termini di riti, di comportamenti e di approcci che vengono eterodeterminati dagli interessi commerciali e industriali di un numero ristretto di soggetti.
Fonte : Repubblica