Finalmente l’Alba Recensione: il lato oscuro del cinema

Immaginate di poter tornare nel periodo d’oro di Cinecittà, negli anni in cui Roma era il centro (uno dei centri, quantomeno) del cinema, con la sua sconfinata produzione di peplum. Un decennio – quello degli Anni Cinquanta – segnato da produzioni come Ben Hur, Quo Vadis e Cleopatra, molte delle quali sono state girate del tutto o in parte proprio nella Città Eterna. Attorno a questo vortice di film, registi e attori di Hollywood espiantati in Italia, con le loro passioni, le loro perversioni e le loro eccentricità, ruota un numero ancor più sconfinato di faccendieri, di lacché, di attorucoli che cercano di sfondare passando da un ruolo minore all’altro, guardando con invidia chi ce l’ha fatta.

Ci sono anche tantissime comparse, persone comuni prese “dalla strada” con la promessa di una buona paga e di un giorno al fianco delle star del cinema. Tra queste comparse c’è Mimosa, protagonista di Finalmente l’Alba, la nuova pellicola di Saverio Costanzo: Mimosa a Cinecittà ci si trova per caso, dopo aver accompagnato la sorella maggiore ad un casting. Ama la settima arte, ma non pensa certo di poter sfondare nel mondo della recitazione.

Una storia lunga una notte

Eppure, è proprio attorno a Mimosa che ruota Finalmente l’Alba, che segue il peregrinare della giovane – spesso impostole dall’esterno, dall’azione di figure più grandi, più potenti e più pericolose di lei – in una giornata-tipo a Cinecittà, dalle riprese della mattina fino alle feste sfrenate e disinibite a notte fonda.

In effetti, la pellicola segue il viaggio verso l’età adulta della protagonista, che si svolge tutto in una manciata di ore. In questo insignificante lasso di tempo, Mimosa stravolge, seppur per poco tempo, la sua vita. Promessa in moglie a un uomo che non conosce e destinata ad una vita da donna di casa, la malinconica giovane viene catapultata in un universo che non conosce e di cui non capisce fino in fondo le leggi, che le fa paura e che eppure abbraccia fino in fondo, assaporando tutte le controversie e i privilegi di uno star system di cui sa che non potrà mai far parte ma che comunque la intriga, il cui solo sfioramento sembra essere un valido motivo per buttare all’aria una vita sì monotona, ma anche sicura e, soprattutto, rispettabile. Invece no: anche se solo per una notte, Mimosa diventa l’ancella (o meglio, il divertissement) di Josephine Esperanto (Lily James), una delle attrici più in voga di Hollywood, che si trova a Roma per interpretare una sadica regina egizia in un peplum tra i tanti. Mimosa si trasforma in Sandy, misteriosa (e muta) poetessa svedese che orbita attorno alla Esperanto come un suo satellite. Tra le altre “lune” della stella del cinema ci sono il suo co-protagonista e toyboy Sean Lockwood (interpretato dalla star di Stranger Things Joe Keery), ma anche il critico d’arte italoamericano Rufo Priori, interpretato da Willem Dafoe.

Nel complesso andirivieni di figure di Finalmente l’Alba (che potremmo ampliare citando anche la Nan Roth di Rachel Sennott e la Alida Valli di Alba Rohrwacher), però, sembra mancare la consistenza. Ci sono personaggi più approfonditi e meglio caratterizzati di altri, con una differenza netta tra Mimosa e Josephine, le due protagoniste indiscusse del film e vero cuore pulsante dell’intera pellicola, splendidamente messe in scena grazie ad una recitazione superlativa e ad una scrittura che non si perde in chiacchiere (nel vero senso della parola: Mimosa è “ammutolita” per gran parte del film) ma che centra l’obiettivo, facendo percepire le due co-protagoniste della produzione come delle persone in carne ed ossa, che non sfigurerebbero accanto ai nomi degli altri divi e dive degli Anni Cinquanta.

Molto meno convincenti sono tutti i personaggi di contorno, a partire dal Rufo Priori di Willem Dafoe, quasi inutile ai fini della trama e nei cui panni le abilità recitative di Willem Dafoe ci sono parse sprecate. Forse anche perché proprio il personaggio di Priori è legato a uno dei momenti in cui l’evoluzione della narrativa sembra assumere dei connotati quasi casuali, con svolte che appaiono forzate e poco plausibili.

Certo, Finalmente l’Alba è un film di stravaganze, di eccessi, di torbidi e di gelosie, ma talvolta la sua trama sembra perdersi. Quando ciò succede, come in uno schiocco di dita, lo spettatore viene catapultato fuori dalla Roma degli Anni Cinquanta, e torna nella poltroncina di un cinema: la magia si interrompe e il realismo lascia spazio alla finzione e all’artificio, che sembra talvolta l’unico strumento capace di portare avanti una trama che pare collassare su sé stessa, anche per via di un ritmo piuttosto lento.

Dietro la “dolce vita”

Questi scivoloni narrativi, comunque, non compromettono definitivamente la godibilità del film. Quest’ultima, d’altro canto, non si basa unicamente sulla trama, ma su una recitazione di alta qualità e, soprattutto, su una ricostruzione incredibile di Cinecittà e di Roma nel periodo storico in cui la Capitale era ancora un centro cinematografico d’eccezione.

L’attenzione ai dettagli delle scenografie e ai costumi è certosina, così come il numero di comparse messe in scena e l’impegno per replicare fedelmente la vita nella città e nei suoi Studios negli Anni Cinquanta. Una vera e propria lettera d’amore all’epoca d’oro del peplum, firmata peraltro da un regista ormai affermato: Saverio Costanzo non è l’ultimo arrivato nel mondo della cinematografia italiana, anche se dal suo ultimo film (Hungry Hearts, del 2014) sono passati dieci anni. Certo, nel mezzo c’è stata la regia di una serie tv di grandissimo successo (qua la nostra recensione di L’Amica Geniale 2), che ha spopolato in RAI negli scorsi anni, ma il salto (all’indietro, in questo caso) dal piccolo al grande schermo poteva sentirsi. E invece no: Finalmente l’Alba è un film tecnicamente ottimo, con una regia e una fotografia che tendono a sparire, fatti salvi pochi momenti in cui si concedono qualche piccolo virtuosismo artistico. Una scelta che, di nuovo, è dettata dalla volontà di far respirare agli spettatori l’aria di Cinecittà, che viene perfettamente centrata: Costanzo mette in scena una “dolce vita” che non è dolce, ma che anzi nasconde dei lati macabri e dei retroscena grotteschi che la pellicola non ha paura di svelare, eliminando la patina nostalgica che ancora ricopre quegli anni.

Non è d’altro canto un caso che Finalmente l’Alba sia ambientato un paio di giorni dopo l’omicidio di Wilma Montesi, avvenuto il 9 aprile 1953: la sparizione di Wilma e il ritrovamento del suo cadavere – crimini per i quali non sono mai stati trovati dei colpevoli – sono il retroterra dell’intero film, che traccia un evidente parallelismo tra Wilma e Mimosa. Entrambe hanno poco più di vent’anni, entrambe sono destinate ad un matrimonio con un uomo dell’Arma, entrambe hanno una bellezza disarmante e il sogno segreto di entrare nel mondo della recitazione, ma alle loro condizioni, che sono dettate da un profondo senso morale.

Dopo aver visto un vero e proprio cinegiornale sulla morte dell’aspirante attrice (una geniale trovata di “cinema nel cinema”, che si ripete in un paio d’altre occasioni e che costituisce una delle scelte più azzeccate del film), lo spettatore non può che aspettarsi il peggio per Mimosa, che nella sua “notte brava” sembra ripercorrere parte della traiettoria che ha portato il corpo di Wilma senza vita su una spiaggia a Torvajanica.

Eppure, la parabola della protagonista è un’altra: immergendosi sempre di più in un mondo solo apparentemente amico, ma in realtà profondamente ostile e approfittatore, riesce infine a riemergerne con le ossa integre e con una nuova consapevolezza di sé stessa. Il viaggio notturno di Mimosa nella “Roma bene” e nello star system è una discesa e risalita dagli Inferi, un racconto disilluso di un mondo romanticizzato e, al contempo, una dichiarazione di fiducia nei confronti della resilienza individuale e della capacità di trarre il massimo da ogni situazione, comprese quelle più avverse.

Fonte : Everyeye