Le storie più semplici possono ancora fare la differenza, specie se permeate da un autobiografismo che le rende uniche e le ammanta di una tale autenticità. Al netto di quello che sarà il risultato degli Academy Awards (qui le nomination agli Oscar 2024), dove non vincerà nulla, Past Lives resta comunque uno dei titoli più convincenti degli ultimi mesi, un piccolo gioiello di scrittura e recitazione dalla rara sensibilità, che rielabora il melodramma e lo veste delle crisi di un’epoca che si guarda indietro senza saper andare avanti con decisione – tra i migliori film al cinema a febbraio. Celine Song fa il suo esordio con una storia che parla di sé, del suo passato e il suo vissuto, tra Corea del Nord, Canada e Stati Uniti, prodotta da A24 e arrivata in Italia grazie (grazie, davvero) a Lucky Red.
I giovanissimi Na Young e Hae Sung sono costretti a separarsi perché la famiglia della prima, artista la madre e regista il padre, dovrà lasciare Seoul per il Canada. Dodici anni dopo i social network li aiutano a ricongiungersi: inizia così un dialogo via chat e Skype, il rapporto si intensifica e la ragazza, oggi Nora Moon, inizia a risentire l’affetto di un tempo per il giovane. Lei è una drammaturga e vive a New York ma i due pensano alla possibilità di rivedersi, prima dell’improvvisa presa di posizione della ragazza, decisa a mettere un freno al rapporto. Passano altri dodici anni, ventiquattro dall’inizio della storia, e Nora è sposata con lo scrittore Arthur. Un terremoto, però, arriva nelle loro vite e li mette davanti al gioco beffardo degli incroci del destino, della vita e delle scelte prese: Hae Sung è a New York, il perché sembra ovvio.
Frammenti di un discorso amoroso
Può capitare che un solo istante cinematografico abbia bisogno di tutto un film alle spalle per avere senso, anche se gli accenni e i percorsi tracciati in precedenza sembrano dire meno di quello che realmente comunicano.
Il breve incrocio di uno sguardo, l’attesa tra quello che potrebbe tramutarsi in un incontro o in un arrivederci/addio, i corpi che potrebbero fatalmente spingersi l’uno contro l’altro. In quel finale così intenso risiede tutta la forza di Past Lives, in quell’attimo così sofferto e desiderato, pieno di ansie e illusioni, ipotesi sospese nei silenzio; finale che può esser vissuto appieno solo dopo tutto ciò che c’è stato prima e la cui freccia centra il bersaglio per chi ha sentito, per chi sta sentendo. L’opera prima della drammaturga coreano-canadese ragiona non tanto sull’amore ma più sul sentimento come atto di fede anche se soggetto a criticità. Sulle scelte, soprattutto quelle non fatte, e le rinunce, le distanze e i riavvicinamenti, sulla memoria che può prendere forma nel presente, sulla lingua e i luoghi come riflessi dell’identità e della personalità. E lo fa con una compostezza e un garbo narrativo esemplare, una scrittura e una maturità da veterani, un equilibrio tra parole e silenzi che bilancia la struttura drammaturgica per distendere e poi colpire quando necessario.
Poche le soluzioni facili, non c’è una risposta che possa dirsi definitiva; c’è solo il “se”, le possibilità mai abbracciate, il caso (quel destino qui espresso con il concetto di in-yun) e il dubbio come amari motori della vita. E allora Past Lives dei sentimenti non parla ma li spoglia, li mette a nudo, cala nell’intimità sia di una relazione che di quella che sarebbe potuta esser tale e non cerca mai di risolvere, di indicare una via giusta o sbagliata, a patto che essa esista davvero quando si parla di emozioni.
Non si pone mai sopra gli eventi e i suoi personaggi ma li riprende da vicino, si cala nelle loro vite diventando parte di esse, vivendo i loro sogni, le paure, gli ostacoli. Senza giudicare, evitando di risultare consolatorio, mostrando in egual modo sia il prezzo da pagare che l’opportunità che se ne può ricavare. Lo fa attraverso una gestione sapiente dei tempi, in cui riveste fondamentale importanza la dignità dei singoli momenti, centrale per immergere in un passato malinconico, prima, e in un magico brief encounter à la David Lean, poi – film, quello del 1945, con il quale condivide la capacità di intercettare la psicologia della contemporaneità e quel romanticismo mai ricattatorio, anzi radicatissimo in un vissuto in cui sembra sempre che manchi qualcosa, specchio della realtà.
Facile comprendere come ci si trovi dalle parti della trilogia Before di Linklater – così non fa strano pensare agli amanti giusti al momento sbagliato, al concetto di memoria e alle relazioni incompiute di In the mood for love di Wong Kar-wai o a Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry – ma la sensazione di già visto non prende mai il sopravvento, anche per il modo con il quale l’autrice gioca sulle logiche e le aspettative di genere.
Lasciarsi con l’amore in bocca
Nulla pare in più o fuori posto, ogni elemento è trattenuto e gioca sul non detto, sa fermarsi intelligentemente per poi venir fuori con prepotenza nell’occasione migliore. Perché se è innegabile che non si stia parlando di nulla di nuovo, Past Lives spicca per la maniera con la quale riesce a raccontare quella nostalgia per dei sentimenti universali ma allo stesso tempo così viscerali, quel senso del vivere che può paradossalmente dirsi concreto in virtù della sua inafferrabilità, quelle sensazioni difficili da spiegare chiaramente a parole ma che chiunque può comprendere.
Da drammaturga, Song conosce il peso del conflitto – così assente da tanti, troppi, drammi moderni – e lo pone proprio al centro dell’indagine sociologico-sentimentale, così che i rapporti e le connessioni abbiano sempre slancio, benzina per un prezioso studio sui caratteri, delicato ma doloroso affondo sulla confusione di una generazione. Il suo esordio mette sempre nel mirino i suoi protagonisti e i luoghi che animano (anch’essi personaggi e portatori di identità), padroni di un’immagine che non li perde mai di vista e arriva quasi a sfiorarli, che lavora prossemicamente sui corpi e le distanze, le direzioni degli sguardi o dei passi.
Centrale, ago della bilancia sentimentale, è un’irresistibile Greta Lee (uno dei motivi per cui vale ancora la pena guardare The Morning Show), che dona alla sua Nora, personaggio femminile modernissimo, una tormentata espressività capace riflette tutti i colori sfumati di un carattere complessissimo; e se negli occhi di Teo Yoo, rivolti verso la città, si accende un’agrodolce illusione, in quelli smarriti di John Magaro, e nelle sue poche ma icastiche parole, vive una sommessa consapevolezza di impotenza. Tre lati di un triangolo sentimentale che contribuiscono, in egual modo, alla partecipazione e all’immedesimazione emotiva, che scoppia proprio quando essi sembrano iniziare a convergere.
Scandito da un preciso rigore formale, da uno sguardo che non disdegna il preziosismo stilistico ma lo fa apparire semplice e naturale, si concentra sull’essenziale e sul senso delle immagini e in esso trova composizioni visuali dalla straordinaria efficacia – le vie dei due bambini che divergono, tra le tante.
E in fondo è proprio nei suoi protagonisti e nell’ambientazione che risiede tutto Past Lives, lungometraggio che sa guardarsi attorno e indietro, fermarsi, ripartire e poi prendere velocità, vagare delicatamente e correre urlando, che sa prendere l’ordinario, e forse pure il banale, per trasformarlo in sognante malinconia e desiderio di sentimenti, quelli immortali che prescindono da spazio e tempo, o che vivono in uno spazio e in un tempo tutto loro.
Fonte : Everyeye