Più di un milione di russi due anni fa lasciarono il Paese per evitarendi venir coinvolti nella guerra in Ucraina. Secondo Putin “più del 50% è tornato”, molti meno per il Financial Times. Ma più della “nostalgia”, a spingerli è stata l’accoglienza senza grandi simpatie anche in molti Paesi fermamente schierati contro la guerra di Mosca. Le storie di chi rimane lontano.
Mosca (AsiaNews) – Uno degli appelli più frequenti per il nuovo anno, da parte del presidente Vladimir Putin, del patriarca Kirill e di tutti gli alti funzionari della Russia, è rivolto ai relokanty, i cittadini emigrati all’estero per evitare la mobilitazione e ogni coinvolgimento nella guerra con l’Ucraina, affinché ritornino in patria. Non ci sono dati ufficiali sul loro numero, né delle uscite, né dei rientri, anche se Putin da qualche mese ripete che “è tornato più del 50%” di loro. Il giornale statale Izvestija parla più prudentemente del 40%, mentre secondo il Financial Times non sarebbe rientrato più del 15% dei relokanty, che comunque sono stimati attorno al milione – milione e mezzo di persone.
Pochi giorni fa Putin ha spiegato all’incontro con le amministrazioni municipali che gli emigranti vogliono tornare in patria “a causa dei bagni in comune per ragazzi e ragazze negli altri Paesi”, ciò che contrasta con la custodia dei “valori tradizionali”, il ritornello in particolare della campagna elettorale in corso. Gli stessi relokanty raccontano piuttosto nelle interviste alla stampa di essere costretti a tornare per l’irrigidimento delle norme per ottenere i permessi di soggiorno, la riduzione dei periodi di permanenza senza visto in molti Paesi, la difficoltà a trovare lavoro e sufficienti guadagni per mantenersi. In generale, in molti Paesi fermamente schierati contro la guerra della Russia, anche i russi fuggiti proprio per questi motivi non sono sempre accolti con particolare simpatia.
I giornalisti di Currentime hanno parlato con diverse persone che hanno vissuto e stanno vivendo questo dramma, per capire i motivi per cui qualcuno decide di tornare, o magari di non tornare mai più in Russia. Ad esempio il 36enne Sergej, designer di professione, è andato nel settembre 2022 in Kazakistan, appena annunciata la mobilitazione generale, e ora si sposta nei Paesi dove è possibile entrare senza visto, senza fermarsi in un posto specifico, ma non intende tornare. Dalla regione di Samara dove abitava, l’Asia centrale era la direzione più naturale, e racconta: “è stato il momento più difficile della mia vita, una cosa è capire che bisogna farlo, un’altra è lasciare tutto senza sapere dove andrai a finire, non sono neanche riuscito a salutare i miei genitori”.
Sergej è partito per la paura della guerra e l’orrore del massacro di persone di un’altra nazione, e i suoi post contro la guerra gli hanno fatto perdere subito il lavoro. Ora cerca di risalire la china, pur con tutte le spese dei viaggi e degli affitti, e ringrazia “le persone del Kazakistan che mi hanno stupito per il loro sostegno e la disponibilità” e anche negli altri Paesi ha trovato molta solidarietà, nonostante le diverse opinioni sul conflitto. Ora egli ha deciso che tornerà in Russia solo se cambierà radicalmente il regime al potere, e consiglia agli altri emigranti di partire insieme a una persona cara, “sarà più facile almeno al 50%, se non di più”, perché la cosa più faticosa è “non riuscire a condividere emozioni e contraddizioni che pesano sulla coscienza e sul cuore”.
Valentin Sokolov, 48 anni, è invece un ecoattivista ed ex-coordinatore del movimento di Aleksej Naval’nyj nella città di Kolomna, nella Russia centrale. Egli ha lasciato la Russia per gli Stati Uniti già nella primavera del 2021, dopo l’arresto del suo leader. Nel 2016 aveva vissuto dopo le elezioni l’esperienza dell’arresto, della detenzione nel lager e anche delle torture nei suoi confronti e di molti altri detenuti, e mentre era in carcere gli insegnanti cercavano di mettergli contro i figli, denunciandolo come “traditore della patria”. Per questo appena è stato possibile Valentin ha preso un biglietto per il Messico, e da Tijuana è riuscito ad arrivare negli Usa sul motorino, insieme al figlio maggiore. Lo stesso itinerario è stato poi intrapreso dalla moglie con i due figli minori, subito dopo l’invasione dell’Ucraina.
Ora Valentin e la famiglia, come tanti altri, cercano di riorganizzare la propria vita, e sentono la nostalgia non tanto della terra nativa, ma della possibilità di impegnarsi per cambiarla e proporre alternative alla soffocante dittatura. Altri intervistati raccontano di essere ritornati, sia per ritrovare la propria vita, sia per le difficili condizioni materiali, ma per lo più attendono il momento in cui sarà nuovamente possibile cercare un’altra strada, verso un altro Paese.
Fonte : Asia