Inno di Mameli, come è diventato il canto ufficiale dell’Italia intera

Dopo la “sbornia musicale” di Sanremo, su Rai 1 è in onda il 12 e 13 febbraio Mameli, miniserie dedicata al patriota dell’Ottocento celebre per il Canto degli Italiani, noto come l’inno di Mameli e divenuto l’inno ufficiale della Repubblica italiana. A interpretarlo sullo schermo è il giovane attore Riccardo De Rinaldis Santorelli, già visto in Doc: Nelle tue mani e Non mentire. Nel cast anche Neri Marcorè, Luca Mascino, Ricky Memphis, Luca Ward e Maurizio Lastrico. La fiction vuole raccontare, in modo ovviamente romanzato e con toni leggermente attualizzati, la vicenda di Goffredo Mameli e di come il suo componimento è diventato l’emblema sonoro dell’intero Risorgimento italiano.

La vita di Mameli

Nato a Genova il 5 settembre 1827, nell’allora Regno di Sardegna, Mameli era figlio di un parlamentare sardo e di una nobildonna della famiglia Zoagli. Fin da giovane fu conquistato dallo spirito patriottico e nel 1846 sventolò il tricolore nel corso delle celebrazioni del centenario della cacciata degli austriaci da Genova. Neanche ventenne, nel 1847 fu appunto autore del Canto degli Italiani, musicato dal compositore Michele Novaro, mentre l’anno dopo organizzò un gruppo di volontari per sostenere Nino Bixio durante le Cinque giornate di Milano e fu per questo arruolato nell’esercito di Garibaldi; in seguito all’armistizio del 1848 compose su indicazione di Mazzini l’Inno militare, musicato poi da Giuseppe Verdi. Divenuto aiutante di Garibaldi, morì giovanissimo nel 1849 durante gli ultimi momenti della Repubblica romana, per via di un’infezione causata da una ferita infertagli dalle truppe francesi. Le sue spoglie ora riposano al Gianicolo.

La sua fama, però, superò fin da subito il breve ciclo della sua vita: già negli anni cruciali del Risorgimento il Canto degli Italiani divenne estremamente popolare tra i patrioti e in generale negli ambienti risorgimentali, ma una volta proclamato il Regno d’Italia unitario nel 1861 si preferì utilizzare come inno nazionale la Marcia Reale di Casa Savoia (il Canto, infatti, era considerato troppo “giacobino” per conciliarsi con gli esiti monarchici dell’unità). Dopo l’istituzione della Repubblica in seguito alla seconda guerra mondiale, il Canto divenne noto come Inno d’Italia e utilizzato come inno prima provvisorio e poi de facto del nuovo stato, anche se per un suo riconoscimento giuridico ufficiale si dovette attendere una legge del dicembre 2017.

Il significato del testo dell’inno di Mameli

Le parole dell’inno sono un’esortazione a tutti gli italiani affinché colgano l’importanza del momento storico e riscoprono un orgoglio nazionale che viene dallo spirito dell’antica Roma (coi riferimenti alla dea Vittoria e a Scipione l’Africano): “Fratelli d’Italia, / l’Italia s’è desta, / dell’elmo di Scipio / s’è cinta la testa. / Dov’è la vittoria?! / Le porga la chioma, / ché schiava di Roma /Iddio la creò”. Il ritornello (“Stringiamci a coorte, / siam pronti alla morte, / siam pronti alla morte, / l’Italia chiamò“) rinnova l’invito a prendere le armi con un altro riferimento classico (la coorte era un’unità tattico-numerica dell’esercito romano). Le successive strofe sono le meno conosciute, anche perché meno cantate: nella seconda s’invita a rispondere ai pregiudizi stranieri abbandonando ogni divisione e pacificarsi sotto l’emblema del tricolore (“Noi siamo da secoli / calpesti, derisi / perché non siam Popolo, / perché siam divisi“); nella terza si fa riferimento alla Provvidenza (“Uniamoci, amiamoci, / l’unione e l’amore / rivelano ai popoli / le vie del Signore“).

Nella quarta (“Dall’Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano, / ogn’uom di Ferruccio / ha il core, ha la mano/ i bimbi d’Italia / si chiaman Balilla, / il suon d’ogni squilla / i Vespri suonò“) si citano alcuni episodi della storia italiana divenuti esemplari nella storia della resistenza patriottica, come la battaglia di Legnano del 1176, l’eroismo di Francesco Ferrucci durante l’assedio della Repubblica fiorentina del 1530, il bimbo Balilla che fece scoppiare la rivolta genovese contro gli austriaci nel 1746 (poi divenuto anche il nome dell’organizzazione dei giovani fascisti) e infine i Vespri siciliani del 1282. La quinta strofa sottolinea la necessità di approfittare della debolezza degli Asburgo (“ah l’aquila d’Austria / le penne ha perdute”), assimilando il caso dell’Italia a quella della Polonia, altra nazione oppressa, spartita tra Austria e Russia (“il sangue d’Italia / bevé, col Cosacco / il sangue polacco: / ma il cuor le bruciò“). La sesta strofa ripete la prima, chiudendo in crescendo.

La fortuna dell’Inno

Sebbene ancora oggi un pezzo musicale cantato con orgoglio dalla maggior parte delle persone, l’inno ha conosciuto nel corso dei decenni alterne vicende: un sondaggio lanciato dalla Rai nel 1960 per sostituirlo non trovò nessun altro brano che riuscisse a scalzarlo. Dopo il Sessantotto, invece, fu rifiutato da molti ambienti come simbolo di un’epoca reazionaria e negli anni successivi furono numerose le proposte di rivederlo, anche solo nell’impianto linguistico. Fu il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che nel suo settennato ribadì la sua centralità patriottica (“è un canto di libertà di un popolo che, unito, risorge dopo secoli di divisioni, di umiliazioni“). L’ultimo atto, appunto, nel 2017 con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale in cui si legge: “La Repubblica riconosce il testo del «Canto degli italiani» di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale”.

Fonte : Wired