Da ” As We Speak”, a “Daughters”, sino a “Skywalkers: a love story”, un viaggio alla scoperta di 3 titoli tra i più interessanti della Categoria U.S. Documentary ,proiettati alla 40^ edizione del Sundance Film Festival
L’anno scorso l’Oscar al miglior documentario è andato a un’opera presentata al Sundance (“Navalny”, categoria World Documentary). Lo stesso è accaduto due anni fa (“Summer of Soul”, categoria US Documentary). Non c’è due senza tre, dicono, e chissà allora se il prossimo 10 marzo a incassare la statuetta più pregiata sarà un’altro sundancer (“20 days in Mariupol” e “The eternal memory” i due titoli in lizza nella cinquina finale). Questo per dire che è qui, nelle opere documentaristiche, che sempre di più si concentra la forza del Sundance Film Festival, che quest’anno ha festeggiato la sua 40^ edizione. Ed è qui allora che – a bocce ferme – scegliamo di tornare per presentare alcuni dei documentari più interessanti visti a Park City. Tralasciando chi ha vinto i premi principali (quelli della giuria: “Porcelain war” per i documentari USA, il norvegese “A new kind of wilderness” per quelli dal resto del mondo) per spostare l’attenzione su altri titoli meritevoli – per motivi diversi – di un approfondimento.
Tre titoli dalla categoria U.S. Documentary
As we speak
“Mama / just killed a man / Put a gun against his head / pulled my trigger, now he’s dead” (Mamma / ho appena ucciso un uomo / Ho puntato una pistola alla sua testa / ho premuto il grilletto e ora è morto). Queste lyrics – quelle di una delle più famose canzoni di sempre dei Queen, “Bohemian Rapsody” – non sono valse a Freddie Mercury un processo né tanto meno il carcere. Lo stesso vale per Johnny Cash, che pure in “Folson Prison Blues” cantava “shot a man in Reno / just to watch him die” (ho sparato a un uomo a Reno / soltanto per vederlo morire). Eppure questa è la realtà che stanno fronteggiando tantissimi artisti hip-hop negli Stati Uniti negli ultimi anni. “As we speak” affronta in maniera intelligente la sempre più consueta abitudine dei pubblici ministeri USA di utilizzare nelle aule dei tribunali i testi di alcuni canzoni come atti di confessione pubblica, annullando la distizione tra realtà e finzione, tra autore e narratore – una chiara violazione del primo emendamento della costituzione USA. Perché, come ha avuto modo di dire Ice-T, autore ancora nel lontano 1992 della celeberrima “Cop Killer”, “se pensiate che io abbia ucciso un poliziotto, allora credete anche che David Bowie sia un astronauta”.
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Daughters
Lei si chiama Angela Patton e già nel 2016 è stata riconosciuta dall’allora presidente USA Barack Obama e dalla Casa Bianca come una “champion of change”, una campionessa del cambiamento. Quello stesso cambiamento che promette l’associazione no-profit che lei stessa ha fondato nel 2000, “Girls for a change”, e che tra le altre cose – con il programma “Date With Dad” (appuntamento con papà) – organizza visite in carcere per le figlie di detenuti che stanno ancora scontando le loro sentenze, alcune lunghe anche 20 anni. E proprio una di queste visite, in un carcere di Washington D.C., è il soggetto del documentario firmato da Natalie Rae e dalla stessa Angela Patton, premiato dal pubblico e consacrato con la consegna del “Festival Favorite award”. Aubrey, Santana, Raziah e Ja’Ana sono tra le bambine/ragazze chiamate a prendere parte alla Daddy Daughter Dance, un ballo figlia-padre nelle sali comuni del carcere che per molto di loro – figlie, ma anche detenuti – è l’unica occasione di incontro (anche fisico) reciproco, dopo che dal 2014 il governo USA ha reso sempre più diffiicile, se non vietato, le visite in persona. “It takes two to tango” dice di un detto popolare: ma a volte non è così semplice.
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Skywalkers: a love story
Philippe Petit ai tempi di Instagram. Viene fin troppo facile liquidare così il documentario firmato da Jeff Zimbalist sulle folli imprese della coppia (anche nella vita) Angela Nikolau e Ivan Beerkus. Che assetati di adrenalina e follower (a oggi: lei 717.000, lui 241.000) scalano gli edifici più iconici – e alti – del mondo, dalla Sagrada Familia alla Terre Eiffel (quando vengono arrestati), dalla Goldin Finance 117 di Tianjin (alta 597 metri) alla torre di Shangai, fino a sfidare la Merdeka Tower, in Malesia, dal 2023 ufficialmente il grattacielo più alto al mondo (appena sotto i 679 metri). Il tutto senza protezioni (proprio come il funambolo francese di “Man on Wire – Un uomo tra le torri”) e senza autorizzazioni, fermati solo dalla pandemia e (qualche volta) dalla paura. Le immagini – tra droni e Go-Pro – sono super spettacolari, la storia (d’amore) forse non troppo originale e alla fine della visione l’impressione è quasi quella di aver visto un reel di Instagram lungo 100 minuti piuttosto che un vero e proprio documentario. Ma le emozioni certo non mancano.
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Fonte : Sky Tg24