Final Fantasy VII è stato per una generazione di giocatori e giocatrici il primo banco di prova con una narrazione differente dal solito e un modo di concepire il videogioco lontano dalle narrazioni occidentali: nel 1997 fu un successo epocale su PlayStation e contribuì non solo al consolidamento della piattaforma ma anche all’espansione sempre più forte del suo genere di riferimento, i cosiddetti JRPG, che fino a quel momento in Occidente arrivavano ma con meno clamore.
Ecco perché il suo rifacimento, iniziato un paio d’anni fa con il primo capitolo (che s’intitola Final Fantasy VII Remake) ha generato felicità, ansia, polemiche e discussioni. Anche perché non c’era l’intenzione di voler raccontare la stessa storia ma, come avviene da sempre per fiabe e racconti, ci sono stati cambiamenti, variazioni e intenzioni di fare le cose in modo differente. Questo senza contare ovviamente l’aspetto grafico completamente nuovo, che dona a tutto un ulteriore grado di espressività.
Adesso ci troviamo di fronte a Final Fantasy: Rebirth, che abbiamo provato in anticipo sull’uscita e che rimette in scena il cuore centrale dell’opera originale, ovvero tutto ciò che succedeva dopo il lungo prologo mostrato in Remake. Concettualmente un seguito, in pratica un gioco totalmente nuovo che si chiuderà poi con il terzo capitolo, fra qualche anno.
Da quello che abbiamo potuto provare, se Remake rappresentava la voglia di innovazione che si mescolava col gusto del passato, Rebirth si apre ancora di più alla meraviglia e al nuovo. Rappresentando perfettamente quel momento nel gioco originale in cui si cambiava disco e improvvisamente tutto diventava più grande, più articolato e più complesso. Lasciata alle spalle Midgar, è il momento per Cloud e soci di inseguire Sephiroth in giro per il mondo: “Quando abbiamo lavorato al primo capitolo qualcuno, pur apprezzando, ci ha scritto che avrebbe preferito qualcosa di più aperto, con maggiore libertà di scelta – ci ha spiegato Naoki Hamaguchi, direttore del progetto – Fortunatamente questo pensiero andava esattamente nella direzione che avevamo scelto per questo capitolo. Questa parte del gioco era più aperta nell’originale ma volevamo che lo fosse ancora di più, con più cose da vedere e luoghi da esplorare”.
E infatti una parte importante della nostra prova si è svolta in una zona verdeggiante ricca di edifici da esplorare, aree segrete, santuari dove trovare oggetti magici speciali e scontri particolarmente ostici. Una situazione perfetta per gestire il gioco secondo il proprio ritmo, sia che amiate battere a tappeto ogni luogo della mappa sia che preferiate lasciarvi trasportare dal caso. E anche qua è difficile rimanere indifferenti di fronte a un aspetto visivo che sa sfruttare perfettamente la potenza di PlayStation 5 senza rinunciare a un tocco retrò, ma mai sfociando del tutto nel fotorealismo. Già il titolo precedente ci aveva abituati a riempirci gli occhi di bellezza, ma qua sembra tutto portato a un livello superiore.
Yoshinori Kitase, storico autore di molti Final Fantasy, tra cui proprio il mitico VII, che qui svolge il ruolo di produttore, ci ha ricordato che “nel gioco originale i limiti tecnici ci permettevano di arrivare fino a un certo punto con la narrazione, i personaggi non erano espressivi e i fondali erano statici. Adesso possiamo lavorare molto di più con le espressioni e con l’ambiente. Pensate a come si impone la cupola della città di Midgar sulle aree sottostanti nel primo capitolo. O come in questo capitolo possiamo giocare col linguaggio corporeo di Cloud nelle sue memorie artefatte. Non vedo l’ora che il pubblico possa apprezzare queste sottigliezze”.
L’unica parte che forse suona strana in quello che sicuramente sarà uno dei giochi più attesi e importanti del 2024 è forse proprio legata alla recitazione, soprattutto dei personaggi femminili: ci sono momenti in cui il gioco si stacca dai toni drammatici che contraddistinguono alcuni momenti per virare verso toni fanciulleschi e momenti in cui improvvisamente i nostri comprimari agiscono come bambini (o bambine) che non sanno niente del mondo. Un candore assurdo, che sicuramente fa parte dell’identità narrativa del gioco, ma che a volte cozza con il contesto, per non parlare di altri momenti in cui è palese il doppio senso sottile di alcune uscite. Ma d’altronde parliamo del Giappone, popolo che nei videogiochi ama molto sollecitare determinate fantasie, soprattutto maschili. Fortunatamente sono solo momenti, ma forse potevamo lasciarceli alle spalle assieme al vecchio sistema di combattimento.
D’altronde di cambi ce ne sono tanti, grandi e piccoli, anche perché non avrebbe avuto senso raccontare le stesse cose in modo identico: “Molti conoscono già la storia, e il nostro obiettivo era senza dubbio quello di sorprendere anche i giocatori di lunga data e fare si che questi cambiamenti siano indicati chiaramente – ha aggiunto Hamaguchi – Ecco perché abbiamo creato le Entities, creature misteriose che, quando appaiono, segnalano subito che sta succedendo qualcosa di diverso rispetto al passato”.
Una grande novità, per esempio, è Queen’s Blood, un gioco di carte che potremo provare con le persone che incontreremo in giro per il mondo e con cui spezzare il ritmo della storia e magari ottenere qualche ricompensa importante. Siamo sicuri che tanti passeranno più ore cercando di collezionare tutte le carte e vincere tutti gli incontri che salvando il mondo da Sephiroth. E tanto per parlare ancora dello storico antagonista, stavolta potremo vivere avere anche l’occasione di controllarlo, ma non vogliamo svelare di più.
Meglio virare verso un tema altrettanto dibattuto, cioè la sorte di un certo personaggio, che (di nuovo) non riveliamo per non togliere la sorpresa a chi non ha mai giocato a FFVII: “Ovviamente non possiamo dirvi come abbiamo gestito certi momenti, ma i nuovi strumenti narrativi ci permettono di raccontare le cose in maniera nuova e più sfumata – ci ha spiegato Kitase con un sorriso – Sono sicuro che i giocatori avranno tanto da discutere e si scateneranno emozioni che magari non hanno provato nel titolo originale. Siamo consci dell’impatto emozionale del gioco in questi anni, e non è stato facile tornarci sopra. Qualcosa è cambiato, ma per capire cosa dovrete giocare”.
Per quanto si possa stare a lungo a parlare dei chocobo, storici volatili simili a grandi struzzi gialli che sono fra i simboli della saga e delle loro varie peculiarità, per quanto si possa analizzare il sistema di combattimento, che per quanto diverso e molto più movimentato dell’originale consente un sacco di scelte strategiche grazie alla possibilità sia di svolgere missioni personali dei nostri compagni (così da aumentare la sinergia) sia di sbloccare potentissimi attacchi combinati, tutto questo è materiale che non vediamo l’ora di analizzare con calma in sede di recensione. Per ora diciamo solo che Rebirth non è solo bello da vedere ma anche profondo e divertente da giocare. O almeno così sembra.
Ciò che resta è un’ultima domanda, anzi, una riflessione da parte di chi sta toccando un passato da molti idealizzato e ritenuto intoccabile. Una visione che soffoca la creatività e un’attività che l’essere umano fa da sempre: il raccontarsi riraccontando le proprie storie. Che consigli possiamo dare a chi si troverà un giorno nei panni di Kitase e Hamaguchi? “Il mio consiglio è avere sempre grande rispetto per il materiale originale – è il suggerimento di Hamaguchi – Tutto quello che succede dopo andrà bene se parti con quest’idea, anche i cambiamenti”.
Quanto a Kitase: “Io invece la penso proprio all’opposto, o forse allo stesso modo, ma da un altro punto di vista. Penso che chi crea debba fare ciò che vuole, con la massima libertà. E quindi ci vuole rispetto e devi assimilare l’opera, ma anche farla tua, fare ciò che vuoi”.
Che è quello che potranno in qualche modo fare i videogiocatori nel mondo di Final Fantasy VII Rebirth quando uscirà su PS5, il prossimo 29 febbraio.
Fonte : Repubblica