Quando il Quadrilatero della moda si prepara ad accogliere l’evento più atteso, la Milano Fashion Week, sulle passerelle non c’è spazio per i timori di un rincaro dei capi di abbigliamento a causa del disordinato contesto geopolitico. Ma anche i vestiti diventeranno più costosi nei prossimi mesi a causa della crisi nel Mar Rosso. Gli attacchi degli Houthi ostacolano il commercio internazionale, a discapito degli interessi italiani. Come abbiamo spiegato in più occasioni, se dall’Asia le navi vogliono arrivare nel Mediterraneo evitando Suez non hanno scelta: devono circumnavigare l’Africa dal Capo di Buona Speranza, con tempi che vanno dai 10 ai 15 giorni di navigazione in più e costi maggiori. E questo si traduce in prezzi più alti per i consumatori e un rischio per le aziende italiane.
Le aziende che ritornano in Italia
Gli effetti si riscontrano in tutti i settori, in particolare in quello della moda: secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, il trasporto navale attraverso il Mar Rosso riguarda quasi il 16 per cento delle importazioni italiane. Di questi, circa un terzo del comparto della moda passa attraverso il Canale di Suez per arrivare in Italia.
La Cina è il principale fornitore delle imprese italiane della moda. Secondo i dati di Confindustria Moda, nei primi otto mesi del 2023 l’export verso la Repubblica Popolare ha registrato una crescita del 18 per cento e il valore ha quasi toccato più di un miliardo e mezzo di euro, all’interno di un export globale cresciuto nello stesso periodo del 2,9 per cento rispetto al 2022, attestandosi sui 24 milioni e 422.000 euro. Discorso diverso è per l’import dalla Cina, che è invece calato del 20 per cento nello stesso periodo, così come è calato quello da Vietnam, India e Myanmar.
La presidente di Confindustria Moda, Annarita Pilotti, spiega a Today.it che i dati al ribasso dell’importazione sono una conseguenza del reshoring (fenomeno che consiste nel rientro a casa delle aziende che in precedenza avevano delocalizzato in mercati più convenienti): “Si stima che questo cambiamento di rotta continuerà nel 2024, in virtù di una più importante spinta dei prodotti interni del Paese, a discapito quindi delle importazioni”, afferma Pilotti.
Tuttavia, è ancora troppo presto per toccare con mano le conseguenze che dovranno affrontare le piccole e medie imprese italiane per la crisi nel Mar Rosso. Crisi che ha già fatto triplicare i prezzi dei trasporti dei container da Shanghai a Genova. “Ci sono rilevazioni che indicano che negli ultimi tre mesi l’Italia ha perso 35 milioni al giorno per mancate o ritardate esportazioni. Quanta di questa perdita ricada sui settori moda e accessori è presto per dirlo: è in corso la raccolta dei dati di interscambio”, precisa la presidente di Confindustria Moda.
Il costo della guerra nel Mar Rosso
L’anno che ci siamo lasciati alle spalle non è stato comunque facile per il settore del lusso e della moda, che ha sofferto l’aumento dei costi di interesse e dell’inflazione. E la situazione non va meglio in Cina. Dalla crisi del settore immobiliare alla pressione deflazionistica, dal rallentamento della crescita della produttività all’invecchiamento della popolazione, il gigante asiatico sta attraversando un periodo di difficoltà economica, deludendo l’iniziale ottimismo dopo la rimozione delle restrizioni per la pandemia.
Cosa ci guadagna la Cina dalle tensioni nel Mar Rosso
A rendere più incerto il futuro sono il conflitto in Medio Oriente e la guerra in Ucraina, che rafforzano il desiderio dei cittadini cinesi a essere più orientati al risparmio e meno al consumo. Con conseguenze economiche evidenti sui grandi gruppi di moda. Lvmh, il colosso proprietario di oltre 75 grandi firme che spaziano dall’alta moda, con Louis Vuitton, Fendi e Christian Dior, alla gioielleria con Bulgari e Tiffany, ha registrato a livello mondiale un calo delle vendite nel terzo trimestre del 2023 (9 per cento rispetto al 17 del secondo trimestre). Anche i principali marchi del gruppo Kering hanno conosciuto una significativa flessione: Saint Laurent ha registrato un calo delle vendite del 12 per cento su base annua, mentre Gucci e Bottega Veneta hanno entrambi riportato un calo dei ricavi del 7 per cento.
Gli abiti nazionalisti dei giovani cinesi
La flessione delle vendite si è registrata quindi soprattutto in Cina, dove il 55,1 per cento dei consumatori preferisce usare i propri risparmi per viaggi e tempo libero (con una predilezione alle attività da svolgere dentro i confini nazionali) contro il 6,4 disposto a spendere in capi di alta moda, secondo una ricerca di Rtg Consulting Group. Ma le cose non sono andate sempre male per il settore in Cina. Prima della pandemia, il 70 per cento della spesa dei cinesi in viaggio all’estero era rivolta ai capi di moda. Comprare in città come Milano, Roma, Firenze e Venezia è sempre risultato più conveniente per i turisti cinesi grazie al vantaggio dell’acquisto esentasse (tax free), arrivando a spendere in acquisti una media di oltre 4mila euro a testa, di cui 1520 euro in abbigliamento e 1440 in pellame e borse (dati: Global Blue).
La pandemia rappresenta uno spartiacque per le abitudini cinesi. “È un dato di fatto – spiega Annarita Pilotti – che i consumatori cinesi siano sempre più inclini ad acquistare status symbol di casa loro”. E il riferimento va al guochao (国潮, letteralmente “tendenza nazionale”), ovvero la propensione dei consumatori a preferire prodotti locali dal design contemporaneo con riferimenti alla cultura e alla tradizione cinese, in risposta al crescente bisogno di espressione patriottica. Secondo Pilotti, “i consumatori cinesi oggi non vogliono comperare solo i brand internazionali: dal post pandemia investono sui marchi locali”. Tanto che per andare incontro al gusto del cliente cinese attento al guochao, molte maison di moda e accessori come Balenciaga, Gucci, Dior e Tiffany hanno pensato a strategie di marketing vincenti, talvolta correndo il rischio di cadere in gaffe e incidenti diplomatici a tinte razziste.
Dal Mar Rosso la nuova crisi dei prezzi in Italia: già 95 milioni di danni al giorno
Il cambiamento delle preferenze dei consumatori potrebbe tradursi in un’opportunità per le aziende di moda. Ma alcuni analisti sono scettici e sostengono che le molteplici e simultanee difficoltà economiche e geopolitiche possano mettere in difficoltà un settore che è per antonomasia resiliente. L’allarme è già scattato e la sua eco potrebbe risuonare in futuro. “In fiera e negli show room si vende su collezione: i problemi di approvvigionamento ci potranno essere i fase di produzione, non in questo momento”, è il monito di Pilotti. Nel breve termine le aziende possono quindi assorbire gli extra costi, ma alla lunga ricadranno sui consumatori. E loro saranno disposti a sostenere il valore della moda “made in Italy”?
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Fonte : Today