Lo hanno scritto a chiare lettere gli agricoltori scesi in strada nei giorni scorsi. Nei supermercati le mele Golden non vengono vendute a meno di 2,10 euro al chilo, ma ai produttori arrivano appena 29 centesimi. Dal latte venduto ai consumatori a non meno di 1,30 euro, gli allevatori recuperano in media 46 centesimi al litro. Colpite anche dalle conseguenze dell’influenza aviaria, il prezzo delle uova in un paio di anni è schizzato fino a raggiungere i 3 euro per confezioni da sei provenienti da allevamento a terra, ma solo una minima parte dei soldi viene recuperata dagli allevamenti, che in Italia per oltre la metà sono intensivi. Le zucchine, che a seconda della tipologia, oscillano tra 1,50 e 2 euro al chilo per il contadino possono essere pagate anche sei euro nei supermercati del Nord Italia. Ma se non finisce nelle tasche dei produttori, a chi vanno il resto dei soldi che spendiamo per mangiare?
Una lunga catena
Come evidenzia uno studio dell’Associazione Distribuzione Moderna (2019), i soldi del cibo vengono frantumati tra tantissimi attori. Per ogni 100 euro di consumi alimentari degli italiani, il 32,8% remunera i fornitori di logistica, packaging e utenze; il 31,6% il personale della filiera, il 19,9% le casse dello Stato, l’8,3% i fornitori di macchinari e immobili, l’1,2% le banche. Appena il 5,1% remunera la filiera agroalimentare. Significa che i poco più di 5 euro su 100 restanti vanno poi distribuiti tra l’industria di trasformazione alimentare (43,1%), gli intermediari (19,6%), distribuzione (11,8%) e ristorazione (7,8%). E agli agricoltori che hanno prodotto quel bene alimentare resta un misero 17,7%.
Ma se la catena di produzione del cibo è lunga e piena di ostacoli, i primi a “cadere” e a chiudere in gran parte dei casi sono proprio loro, gli agricoltori, nonostante siano indispensabili. La loro rabbia, esplosa per le strada di mezzo Europa, nasce da qui.
La protesta a Bruxelles
Hanno dato alle fiamme copertoni, buttato giù una statua e invaso le strade nel cuore della notte con le gigantesche ruote dei loro trattori. La rabbia degli agricoltori europei è arrivata il 1 febbraio a Bruxelles, dopo settimane di blocchi e tensioni, lamentele e accuse diffuse in vari Paesi europei. Tra Covid, guerra in Ucraina e speculazioni, a pagare un prezzo altissimo sono stati i produttori di cibo. Il malcontento è stato spedito all’indirizzo dei governi nazionali e dell’Unione europea, ma dietro la nuova povertà rurale ci sono tanti altri fattori e attori. “Nel 2022 vendevo il frumento tenero a 350 euro a tonnellata, nel 2023 è sceso a 260 euro circa. Guadagno di meno, ma i costi degli input agricoli come fertilizzanti, pesticidi e macchine agricole, sono aumentati almeno del 10%”, precisa Alessandro Rosso, piemontese arrivato a Bruxelles con una delegazione regionale della Coldiretti. L’organizzazione agricola, che per voce del suo presidente Ettore Prandini aveva dapprima criticato i manifestanti accennando ad infiltrazioni No Vax, ha deciso alla fine di cavalcare l’onda delle proteste portando un migliaio di imprenditori agricoli nella capitale europea. Hanno urlato all’unisono contro le regole imposte dall’Europa, i limiti ambientali contenuti nella nuova Politica agricola comune (Pac), l’eccessiva burocrazia e la farina di grillo.
A chi finiscono davvero i fondi europei
Preoccupazioni condivise con la Copa-Cogeca, il potente sindacato agricolo europeo, che accusa la Commissione europea di aver tagliato i sussidi e aver imposto troppe regole improntate all’ecologia anziché alla produzione. Altre organizzazioni evidenziano però una visione diversa. “I fondi pubblici rappresentano il 30% circa degli introiti degli agricoltori, ma tendono a concentrarsi nelle mani di poche grandi imprese e consorzi. La nuova ‘politica agricola comune’ aveva proposto una redistribuzione di queste risorse verso i piccoli e i produttori isolati come quelli delle comunità montane, ma le potenti organizzazioni agricole hanno ostacolato in tutti i modi questa svolta”, spiega a Today Antonio Onorati, contadino ed esponente dell’Associazione rurale italiana.
L’analisi è confermata dai dati, sia europei che italiani, come mostrava già nel 2017 un rapporto redatto dalla Rete di Informazione contabile agricola (Rica). In media il 20% delle realtà agricole (inclusi consorzi ed enti di ricerca) recupera oltre l’80% dei fondi, con picchi in alcune Regioni, dove la concentrazione arriva fino al 95%. La direzione generale di contabilità dell’Ue confermava che i sussidi europei si concentrano nelle mani dei 50 più grandi beneficiari in ogni Stato membro, sia dei fondi Pac che dei Fondi di Coesione. In Italia, ad esempio, nel 2019 ben 32 milioni di euro l’anno sono stati assegnati ad un singolo beneficiario: la F.IN.A.F. – First International Association Fruit, che riunisce oltre 9mila agricoltori che coltivano e commercializzano ortofrutta fresca e trasformata tra Francia ed Italia, sotto l’egida di marchi della grande distribuzione.
Vivere con 700 euro al mese
Per chi non riesce ad accedere a fondi pubblici consistenti, ci si può ritrovare a fine mese con appena 700 euro in tasca, soprattutto in regioni come la Sardegna e la Val d’Aosta. I redditi più rilevanti si registrano in Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia e Piemonte, dove le aziende agricole sono state brave ad associarsi in consorzi, e arrivano a fatturare oltre 100 mila euro in un anno. Anche lì però le difficoltà si sono fatte sentire. “Molti di quelli scesi in strada rappresentano un modello agricolo industriale in crisi. Chi possiede oggi un’azienda medio-grande deve affrontare tanti problemi e costi, ma senza risorse pubbliche consistenti non sopravvive”, sottolinea ancora a Today Antonio Onorati, dell’Associazione rurale italiana.
I debiti si accumulano in fretta, tra innovazioni da introdurre, dipendenza dai fertilizzanti chimici e allevamenti sempre più tecnologici, ma complessi da gestire. Pesa anche l’acquisto di sementi – spesso sotto brevetto – e pesticidi. In molti casi i due elementi sono prodotti dalle stesse multinazionali come Bayer-Monsanto, Basf e Syngenta. In questo contesto i “piccoli” dimostrano a volte più capacità di resilienza e inventiva, ma non sempre può bastare.
Paghiamo di più per prodotti di qualità inferiore
Il 31 gennaio al tavolo dello European Food Forum erano seduti esponenti del mondo agricolo, Ong, consumatori, insieme a rappresentanti delle industrie di trasformazione e conserviere, così come della distribuzione. Questi ultimi si dicono in ascolto e pronte ad innovare, ma che faticano a cambiare i loro modelli di business. “Le buone pratiche si stanno diffondendo nei nostri negozi, ma è molto difficile pensare a nuove regole quando sei troppo impegnato a tenere in piedi il tuo business”, ha affermato Els Bedert, di EuroCommerce, l’ombrello europeo che riunisce grande e piccola distribuzione. In un mondo che ha fretta di fare affari a pagarne le spese è l’anello debole.
“Chi produce non ha capacità di negoziazione. A decidere il prezzo sono le industrie sementiere, spesso straniere, che detengono i diritti di proprietà intellettuale sui semi”
“Chi produce non ha capacità di negoziazione. In frutticoltura, dalla piantina fino alla mela, in tanti casi a decidere il prezzo sono le industrie sementiere, spesso straniere, che detengono i diritti di proprietà intellettuale sui semi”, racconta Onorati a Today. “Il pomodoro da industria ad esempio è spesso oggetto di contrattazione preventiva o, peggio ancora, post-vendita e va sotto i 10 centesimi al quintale. A guadagnarci sono solo le aziende di trasformazione”, precisa ancora il contadino che in Europa è anche membro di Via Campesina, l’organizzazione che difende l’agricoltura familiare.
A rimetterci sono anche i consumatori, che si ritrovano a pagare di più per prodotti di qualità inferiore, frutto di inquinamento e in tanti casi senza sapore. “I consumatori vogliono scelte più dietetiche e sostenibili, ma al tempo stesso l’accessibilità è una questione fondamentale, perché questi cibi non possono essere troppo costosi. Il prezzo è uno dei principali ostacoli per mangiare bene e non tutti i costi aumentati in questi anni devono ricadere sulle loro spalle”, ha dichiarato Els Bruggeman di Euroconsumers.
Cibo di prossimità
Riavvicinare agricoltori e popolazione potrebbe essere una buona strada, ma con la scomparsa di tante aziende agricole, in Italia come in Europa, diventa sempre più difficile. “La lattiera cooperativa di Dobbiaco, quando in Italia un litro di latte veniva pagato 28 centesimi al produttore, già pagava 50 centesimi agli allevatori della zona. È possibile che l’industria e la distribuzione paghino di più, ma occorre un meccanismo obbligatorio che tuteli gli agricoltori”, sostiene Onorati. C’è poi l’esigenza di rimettere al centro contadini e prodotti locali, anche grazie all’aiuto della ristorazione. Per evitare che siano esperienze di nicchia bisogna però moltiplicare questi interventi e favorire la loro riproducibilità su larga scala. “Sui territori esistono tantissime esperienze efficaci, che secondo noi sono la chiave di partenza per rilanciare un sistema alimentare sostenibile per tutti”, ha dichiarato a Today Marta Messa, direttrice dell’ufficio Slow Food di Bruxelles. “Penso ad esempio alla città di Bordeaux, che ha un consiglio per la politica alimentare molto vasto in cui i vari attori partecipano e collaborano, o a Copenaghen, che sta lavorando per facilitare l’accesso di piccoli produttori locali al mercato delle mense pubbliche, adottando modelli più flessibili per i contratti e instaurando delle sessioni di dialogo tra i vari attori”, ha aggiunto Messa.
Dopo le proteste Ursula von der Leyen ha annunciato una serie di deroghe alla nuova Pac, cedendo in parte alle pressioni delle grandi organizzazioni agricole. Mettere in discussione un sistema malato sarà un’impresa davvero dura. Se non si parte dal basso, non saranno certo i big dell’agroalimentare a tutelare la varietà dei nostri territori e finiremo col comprare cibo scadente e insapore, oltre che inutilmente caro.
Fonte : Today