Cara Meloni, ma per chi lo facciamo questo museo delle foibe?

Quando rimane soltanto la speranza non ci resta che affidarci alle memorie da custodire dentro ai musei. La notizia dello stanziamento di otto milioni di euro da parte del governo Meloni per il futuro museo dell’esodo giuliano-dalmata da realizzare a Roma arriva a ridosso del Giorno del Ricordo (10 febbraio) e spiega, per l’ennesima volta a tutto il Paese, che quella degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia è una storia che ha bisogno di essere raccontata. Il dramma del confine orientale a livello politico ha portato soprattutto rimozione e speculazione. Da un lato la sinistra per decenni ha cancellato dalla storia “ufficiale” quelle memorie (“gli esuli son tutti fascisti”), mentre la Democrazia cristiana le ha cavalcate per meri obiettivi elettorali. La destra, quella che oggi siede nei palazzi del potere, ha continuato per decenni a rivendicare territori e identità. Una volta crollato il muro di Berlino e venuti meno i fantasmi del passato, a regnare è l’approssimazione politica, oltre che le generalizzazioni sdoganate dalle stesse istituzioni. In tutto ciò, quello che sembra mancare un po’ dappertutto, è una proiezione sulla gestione futura di questa storia.

Labari e associazioni alla foiba di Basovizza foto Aiello

Molti dei testimoni viventi dell’esodo – nelle foibe pochissimi si son salvati – sono morti. Buona parte della generazione di mio padre (quella nata negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra e testimone quasi inconsapevole di quel dramma), una volta raggiunta l’età adulta ha vissuto – e accettato – l’omologazione. Oggi, quella generazione si sente ancora esule, ma non tutti sono riusciti a fare i conti con il passato. Quella giovinezza è stata spazzata via e nella quotidianità occupa uno spazio marginale, a volte del tutto irrilevante. Il museo dell’esodo nella Capitale – al di là del maxi finanziamento voluto dal ministro Sangiuliano – saprà riempire il vuoto di contenuti che si è creato negli ultimi anni? Chi verrà investito della responsabilità di realizzarlo, saprà rendere il giusto omaggio a chi oggi, a distanza di 70 anni, si sente ancora smarrito?

Perché il punto centrale sta nella risposta da dover dare alla domanda “signor ministro, per chi lo facciamo questo museo?”. Lo facciamo per gli italiani tutti, lo annunciamo in pompa magna così da strappare un sorriso compiaciuto alle schiere di portaborse, politici e parlamentari, oppure lo metteremo in piedi per chi sostiene ancora, soprattutto a nordest, di essere stato tradito? Gli esuli oggi in vita, all’epoca dell’abbandono e la fuga, erano bambini. Per decenni si è parlato degli adulti, quasi e sempre maschi. Poi, inevitabilmente, anche i “grandi” son morti. Nel Novecento la letteratura, gli studi, le ricerche in archivio e la memoria orale han lasciato fuori dal pantheon giuliano-dalmata le donne e i bambini. Non per le tragedie, gli infoibamenti e le violenze. No, di tutto ciò le biblioteche son stracolme.

Sono stati lasciati fuori due pilastri della società moderna. Piaccia oppure no, il filone d’indagine sul trauma psicologico subito dalla generazione di mio padre non è nell’agenda degli storici che studiano il confine orientale d’Italia; non lo è neanche lo studio della condizione femminile, delle donne istriane, fiumane e dalmate che una volta in Italia continuarono a cucinare, stirare e mettere a posto casa. Cosa sappiamo di tutto ciò? Cosa possiamo fare, oggi, per restituire serenità a quei settantenni che continuano a vivere una condizione di acuto vittimismo, se non addirittura depressioni mai del tutto curate?

Signor ministro, da figlio e nipote d’esuli, mi permetto di rivolgerle una richiesta: scriva nero su bianco che nel museo dell’esodo a Roma una vasta sezione sarà dedicata al trauma psicologico e alla condizione della donna tra gli esuli. Non angelo del focolare, né fenomeno ancora oggi monopolio della sinistra post basagliana. Una schietta pagina di analisi, lucida indagine su un passato troppo spesso vittima di pressapochismo. Così facendo, regalerà un breve istante di gioia a tutti quelli che sono ancora lì ad aspettare, e l’Italia avrà capito che “le più complesse vicende del confine orientale” sono davvero tali.  

Fonte : Today