Ancona, “caporali” al porto si facevano restituire metà dello stipendio da tre operai bengalesi

Il racconto della Cgil: “Gli operai ci confidarono che due incaricati ogni mese andavano da loro per farsi ridare parte dello stipendio, tra i 600 e i 700 euro su una paga complessiva di 1.200 euro al mese. Gli operai pagavano perché mi dissero ‘meglio avere 600 euro che vendere le rose in strada’”.

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Tre operai bengalesi assunti da una ditta esterna che opera nell’area Fincantieri, al porto di Ancona, hanno per tre anni ricevuto stipendi dimezzati per assicurarsi un lavoro e, grazie ad esso, il permesso di soggiorno necessario per rimanere in Italia. I tre lavoratori sono stati costretti a restituire fino a 700 euro al mese (su uno stipendio di 1.200 euro) a due collaboratori del loro titolare. “Meglio avere 600 euro che vendere rose in strada“, le parole delle vittime, spinte dalla povertà ad accettare quelle condizioni.

La vicenda di presunto caporalato è stata denunciata nel 2019 ma ha avuto inizio nel 2017 ed è finita ora a processo al tribunale di Ancona, dove stamattina è stata proprio la segretaria generale della Fiom Cgil Marche a raccontare in aula i fatti come testimone dell’accusa. Era stato il sindacato, parte civile nel processo, a far scattare l’esposto alla guardia di finanza, dopo i racconti degli operai, dipendenti della ditta specializzata nella coibentazione di scafi navali.

“Abbiamo una saletta per gli incontri dentro lo stabilimento Fincantieri Ancona – ha riferito in aula Sara Galassi, segretaria della Fiom – all’epoca ero funzionario e seguivo le ditte di appalto per garantire i diritti essenziali ai lavoratori sui quali non correvano buone voci. Gli operai ci confidarono che due incaricati ogni mese andavano da loro per farsi ridare parte dello stipendio, tra i 600 e i 700 euro su una paga complessiva di 1.200 euro al mese. Gli operai pagavano perché mi dissero ‘meglio avere 600 euro che vendere le rose in strada’. Le buste paga non avevano ferie e malattie pagate”.

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Non solo: su un tetto massimo di 173 ore mensili gli operai ne avrebbero lavorate 260. Ad approfittarsi dello stato di necessità sarebbero stati sia il datore di lavoro  che i suoi due collaboratori, bengalesi anche loro. Il titolare dell’azienda incriminata, che ha sede ad Ancona, è stato assolto in abbreviato mentre i suoi due bracci destri sono a processo per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La prossima udienza del processo si terrà il 17 maggio.

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Fonte : Fanpage