Sara Lazzaro è un’attrice completa, una di quelle interpreti che nella sua carriera si è sperimentata in tutti i registri espressivi. Sin dalla prima stagione di Doc – Nelle tue mani è Agnese Tiberi, una donna piena di contraddizioni ma con un viaggio lungo e importante da intraprendere.
Sara Lazzaro è Agnese Tiberi in Doc – Nelle tue mani 3, la fiction di Rai1 in onda ogni giovedì in prima serata. Sin dalla prima volta in cui il dottor Andrea Fanti è comparso sul piccolo schermo, lei è stata al suo fianco nei panni di una donna costretta a fare i conti con un passato che prepotentemente ritorna a scombussolare una vita che sembrava aver preso una piega predefinita. Eppure, la vita dell’attrice padovana, ma cresciuta con un piede in America, è stata all’insegna della sperimentazione, della conoscenza di sé, delle proprie radici, intenta a sperimentarsi e a scoprirsi. L’amore per la recitazione è arrivato dopo la laurea in architettura, è volata a Londra e dal quel momento non si è più fermata.
L’Italia, però, è il posto in cui si sente a casa e dove ha trovato la popolarità: “La celebrazione del proprio lavoro, l’apprezzamento è bellissimo da incontrare sul proprio percorso, ma bisogna stare attenti a non esserne dipendenti, è fondamentale”. Ma Sara sembra essere ben salda a terra, come racconta in questa intervista, dove ripercorre passo dopo passo le fasi di una carriera e di una passione, destinata a durare nel tempo.
Sin dalla prima stagione della serie Agnese è un personaggio contraddittorio. Si divide tra l’amore sopito per Andrea e quello per il suo compagno, tra il privato e il lavoro. Riuscirà a trovare un suo centro?
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Chissà io chiaramente non vi dirò mai nulla di quello che succederà (ride ndr.). È vero, c’è una contraddizione in Agnese, ma credo sia molto bello far vedere, soprattutto su Rai1, un contrasto che ritengo appartenga a tutte e tutti, il fatto che maturi delle idee, delle pulsioni in una direzione, poi la vita ti stupisce e riesci a stupirti anche di te stessa. Il percorso di Agnese è ancora molto articolato, ci sono molte cose che dovrà affrontare. Dovrà ancora capire delle cose di sé, ma in questa stagione compie un viaggio davvero importante.
In questa stagione i ricordi hanno un ruolo predominante. Agnese li teme e prova ad ostacolare, come può, la ricerca di Andrea, sebbene lei abbia fatto la sua scelta. Cosa teme di perdere?
C’è una costruzione precisa che attraversa le tre stagioni e Agnese si trova a dover cambiare prospettiva. La prima stagione era focalizzata sullo sparo, per cui c’è un ritorno al Fanti che lei aveva conosciuto, è l’uomo di cui era innamorata, ma per dieci anni ha dovuto fare i conti con l’Andrea del passato, quello che compare nei flashback, quell’uomo scontroso, chiuso. Questo cambiamento repentino la porta a dover riconoscere che, pur essendo tornato quello di un tempo, anche la sua vita aveva subito dei nuovi risvolti. Nella seconda stagione il Covid è predominante, però c’è la ricerca di un equilibrio tra due persone che riconoscono di volersi bene, Agnese ha scelto di stare accanto al suo nuovo compagno, di intraprendere un percorso di adozione. Per cui l’idea di tornare al passato riapre tantissime porte, questioni, c’è un senso di protezione nel non voler distruggere ancora una volte l’equilibrio che si è ritrovato.
Sui social, infatti, fioccano le teorie più disparate su cosa sia potuto accadere tra i due.
Non voglio spoilerare nulla, vedo tutto quello che scrivono, che immaginano sia successo o che stia nascondendo il personaggio di Agnese. Non voglio privarli di questa immaginazione, perché poi sarà ancora più forte quello che verrà fuori.
E Sara che rapporto ha con il passato?
Di natura sono molto nostalgica. Riconosco che il mio presente è fatto del mio passato, ogni ricordo anche brutto ti fa capire chi sei, anche se per difesa la nostra mente tende a farci ricordare il passato nella sua versione migliore. Ho sempre voluto capire quale fosse la mia storia, il mio percorso, il ricordo è identità. Però, allo stesso tempo, è fondamentale guardare avanti, non si può restare voltati all’indietro per tutto il tempo della nostra vita.
Ad Agnese viene però rimproverato di essere poco presente a casa, a Giulia di non aver scelto il momento giusto per candidarsi a primario. È finzione, ma nella realtà accade spesso alle donne di essere ostacolate, come ti sei rapportata a questa condizione?
Sono donna anche io, quindi riconosco questa dinamica. Non sono madre, ma vivo a stretto contatto con un mondo di donne in carriera che lo sono, che stimo tantissimo e per le quali faccio il tifo, credo sia giusto che si riescano a fare entrambe le cose in egual modo. È una difficoltà sistemica accettare che la donna non debba per forza essere un passo indietro da questo punto di vista. Ma c’è un altro aspetto, che magari mi tocca in prima persona, l’esigenza di essere perfette, di essere non al 100 ma al 300% per meritarci quel preciso posto e accade ogni volta che noi donne ricopriamo ruoli rilevanti, generalmente affidati agli uomini. È bello quando si hanno esempi di donne che, nonostante le difficoltà, i limiti, gli ostacoli volontari per non farle procedere mostrino la loro tenacia nell’andare avanti. Da attrice riconosco che per noi donne c’è un sistema diverso, dobbiamo farci valere più del necessario.
Hai raccontato di come a Los Angeles tu abbia impiegato circa 7 mesi per avere un ruolo da protagonista in The Young Messiah. Un tempo irrisorio rispetto a quanto accade in Italia, dipende dal fatto che qui i prodotti hanno un’impostazione meno industriale e gli attori fanno fatica a trovare una loro dimensione?
Non essendo una produttrice non conosco nello specifico i meccanismi interni, però essendomi approcciata ad entrambe le industrie sicuramente c’è una sostanziale differenza economica e di target. Sia negli Stati Uniti che in Inghilterra si parla di prodotti anglofoni che vengono distribuiti in tutto il mondo e questo fa sì che la produzione aumenti in maniera esponenziale, basti guardare l’esplosione dello streaming in questi anni. Quando ero a Los Angeles avevo una percezione mastodontica, è un sistema enorme, fatto di mille branchie, poi c’è la divisione in settori, in generi. In Italia i nostri prodotti sono in lingua italiana, la richiesta è diversa, ma la cosa che trovo straordinaria è che nonostante questo abbiamo un cinema che fa riverbero, basta vedere Io Capitano in questa stagione degli Oscar, Paolo Sorrentino, o un sacco di altri registi italiani che nel corso degli anni sono riusciti a veicolare un messaggio. E poi c’è un’altra differenza.
Quale?
Anche qui in Italia ci sono produttori indipendenti, che stanno cercando di liberarsi da schemi del passato, ma ce ne sono altri che preferiscono giocare sicuro, con storie, personaggi, attori. In America è un po’ più facile. Il fatto che io sia stata scelta per un film da protagonista con Sean Bean, per me era una cosa incredibile, ma questo in America accade perché loro sono più propensi a rischiare, chiamare volti nuovi. Con lo streaming è un processo che si è moltiplicato, ho visto attrici o attori che non avevo mai visto. In Italia questa cosa accade molto di più per i teen, per le storie giovani, è il ciclo che evolve e che si sta focalizzando sul young.
Sara Lazzaro in The Young Messiah
Hai lavorato in America, hai studiato recitazione a Londra, come mai sei tornata in Italia?
Per tantissimi anni ho fatto la hopper, saltavo da un paese all’altro, ormai la gente mi chiamava e mi chiedeva “ma dove sei” e io rispondevo “dove vuoi che sia”. Ero un po’ all’avanguardia, prendevo aerei, mi destreggiavo con mille lavori, cercavo di mantenermi disponibile per ogni evenienza. Dopo Londra ho lavorato anche in Scozia, poi sono tornata in Italia anche per prendere una boccata d’aria e in quell’occasione ho girato il mio primo film, Dieci Inverni. Poi ho continuato a fare una tournée con questa compagnia scozzese, sono stata al teatro di Parigi, a Edimburgo, poi all’improvviso ho accettato uno spettacolo in inglese a Venezia. Un giro assurdo.
E da quel momento è partita la tua carriera italiana?
Ho trovato un agente in Italia, ho fatto lo spettacolo di Marco Tullio Giordana che mi ha inserito nel sistema teatrale italiano, dove puoi entrare solo attraverso le scuole di teatro oppure, come mi hanno detto quando chiesi come fare provini per qualche spettacolo, “tramite conoscenze”. Sono tornata per due anni a Los Angeles, poi sono andata a New York. Ma l’Italia mi chiamava. Ricordo che ero a Los Angeles sul Sunset Boulevard, ricevo una telefonata dalla mia agente italiana “Sara, Cristina Comencini, vorrebbe che facessi una sostituzione per il suo spettacolo a teatro, devi essere in 48 ore a Imola”. Accettai. Ho fatto due mesi di tournée indimenticabili, poi è arrivato Volevo fare la rockstar ed eccomi qui. Ma tutt’oggi le porte all’estero non le chiudo.
Sara Lazzaro in Volevo fare la rockstar
Secondo te il successo è una forma di riconoscimento o qualcosa legata al momento che si sta vivendo?
Faccio questo mestiere dal 2008, per come sono stata formata e per come è stato impostato il mio lavoro, non l’ho mai legato al successo. È meraviglioso quando arriva, ma non è scontato e non può essere l’obiettivo finale, è una costante ricerca, una costante fame di voler crescere, migliorare, raccontare. Il successo è paragonabile alle opportunità. Quando ti dicono “hai avuto fortuna”, in realtà no, c’è anche una buona dose di preparazione, poi, certo, ci sono anche le cosiddette congiunzioni planetarie, quando sei nel posto giusto al momento giusto. Per molto tempo non ero stata pensata per dei ruoli, ad un tratto si sono aperte delle porte, non è che fossi cambiata, ero sempre io, sono anche le mode che girano, è un sistema effimero l’industria, quindi devi essere tu saldo e devi perseverare.
Pensi di essere stata abbastanza perseverante?
Ho fatto di tutto, anche spettacoli viaggiando. Una delle cose più belle è stata fare uno spettacolo itinerante in alcune scuole di Trapani dove raccontavamo la storia del teatro. Passavamo dalle tragedie greche a Shakespeare, Moliere, Goldoni, Ibsen, facevamo un excursus con le scene ai ragazzi, e ricordo che un bambino, avrà avuto 5-6 anni mi ha detto “ho capito che per fare teatro bastano noi che guardiamo, due sedie e due persone davanti”. Ecco, mi son detta, questo bambino è Peter Brook (ride ndr).
Ti abbiamo vista seriosa in Doc, esuberante in Call my Agent, altezzosa ne La legge di Lidia Poet. Com’è Sara nella sua quotidianità?
Ho difficoltà a tornare in me con tutti questi personaggi (ride ndr.). È come se tutti i ruoli che interpreto fossero delle possibili declinazioni di me, alcune esasperate, però è come se ci fosse sempre il seme di qualcosa che mi appartiene. È come se noi avessimo una tavolozza di colori, per fare un personaggio hai bisogno dei rossi, per farne un altro dei blu, però quei colori sono miei, ci sarà sempre qualcosa di mio. Poi ho notato che anche nella vita di tutti i giorni, probabilmente come per al maggior parte di noi, in base alle persone con cui interagisco, o alle situazioni in cui mi trovo, la mia personalità prende forma, esprimo una cosa piuttosto che un’altra.
C’è qualcosa che speri di non perdere mai di te?
La capacità di buttarsi. È una cosa meravigliosa, o ti butti di testa, rischi tutto o non vale la pena farle certe cose, non mi risparmio mai e spero sia un lato di me che non sia destinato a cambiare. Me lo dico sempre, è davvero bellissimo rischiare.
Fonte : Fanpage