Non una semplice ristrutturazione: la crisi dell’industria del videogioco

Il mercato del videogioco non è esente da crisi cicliche, la più famosa è sicuramente quella del 1983, denominata Atari shock, quando la pubblicazione eccessiva di titoli di scarsa qualità, per non dire imbarazzanti, ha provocato un crollo delle vendite con conseguente caduta del fatturato che è passato da 3,2 miliardi di dollari dell’83 a circa 100 milioni dell’85.

Il 2023 è stato invece un anno fantastico per i videogiocatori. Sul mercato sono approdati, a cadenza mensile, titoli di altissimo livello per ogni tipo di piattaforma e l’industria ha continuato a macinare numeri positivi. I videogiochi, secondo il consueto report di GamesIndustrybiz, hanno generato introiti pari a circa 184 miliardi di dollari nel corso dell’anno, più 0,6% rispetto al precedente.

In questo panorama positivo, quasi idilliaco, si susseguivano però i licenziamenti e alla fine di dicembre, quando GamesIndustrybiz presentava il suo report, circa 6.000 (dato dedotto sommando i licenziamenti di cui si ha notizia) posti di lavoro tra sviluppatori, editori e altre aziende legate al mondo del gaming, erano evaporati. Ma andava ancora tutto bene, o quasi.

Il terremoto di gennaio

Appena stappate le bottiglie di champagne per festeggiare l’anno nuovo, Archiact, società specializzata in giochi VR, ha annunciato via social di aver licenziato un numero imprecisato di dipendenti.

Parte così un potente sciame sismico. L’8 gennaio l’agenzia di stampa britannica Reuters ha rivelato che Unity Software ha lasciato a casa 1.800 persone, la società prevede inoltre di tagliare del 25% del proprio personale entro marzo 2024. Segue l’annuncio del taglio di 500 dipendenti da parte di Twitch, piattaforma di streaming video orientata al gaming.

Il peggio però è arrivato a fine mese quando Riot Games, sviluppatore e produttore di titoli di enorme successo come League of Legends e Valorant, ha lasciato a casa 530 professionisti, circa l’11% del suo personale. Subito dopo The Verge ha riportato che Microsoft stava per licenziare 1.900 dipendenti, pari all’8,6% della forza lavoro all’interno delle sue divisioni dedicate al videogioco, comprese Xbox, Activision Blizzard e ZeniMax. Infine Eidos Montréal, studio di sviluppo di proprietà del gruppo Embracer, con un comunicato ufficiale ha fatto sapere di aver licenziato 97 persone tra team di sviluppo, amministrazione e servizi di supporto, cancellando anche il nuovo capitolo di Deus Ex, titolo in produzione da due anni.

In un solo mese sono 28 le realtà che hanno ridotto il loro personale, circa 6.071 professionisti che operano nell’industria del videogioco sono stati licenziati.

In un solo mese l’industry è riuscita a eclissare il record già fortemente negativo del 2023.

La sbronza pandemica e lo shopping compulsivo

Interrogati sulla massiccia ondata di licenziamenti, i vari attori dell’industria hanno ripetuto tutti lo stesso mantra che recita più o meno così: sono fortemente rattristati di vedere i loro dipendenti andare via, ma in tempi di recessione economica è cruciale prendere decisioni difficile.

Nell’anno dell’esplosione della pandemia, con conseguenti lockdown e le persone barricate in casa, i videogiochi hanno macinato numeri record, totalizzando nel 2020 175 miliardi di dollari di ricavi, più 19% rispetto all’anno precedente; arrivando nel 2022 a 180 miliardi e come già detto stabilizzandosi nel 2023 a 184 miliardi.

Se a una crescita a due cifre in un momento critico, dove altri settori crollavano a picco, si aggiunge il bassissimo costo del denaro la tentazione è forte.

Così colossi Tencent, Microsoft, Sony, Embracer, si sono dati allo shopping compulsivo, acquisendo studi e asset.

Microsoft ha chiuso la controversa acquisizione di Activision Blizzard a 69 miliardi di dollari, Sony PlayStation ha comprato Bungie per 3,6 miliardi di dollari, solo per citare i più noti.

Negli biennio 2020/2022 abbiamo assistito anche a annunci roboanti come quello di Sony PlayStation, ancora sotto la guida di Jim Ryan, che prevedeva lo sviluppo, con allocazione di fondi e maestranze, di ben 12 titoli live service, tipologia di videogioco che prevede il supporto nel lungo periodo. Quando Bungie però licenzia circa 100 sviluppatori a causa del tracollo di Destiny 2, loro videogioco live service di punta, che dopo la pubblicazione dell’espansione l’Eclissi avrebbe registrato un calo del 45% dei ricavi, Sony fa marcia indietro, tagliano 6 titoli dal catalogo live service. Non solo, dopo oltre 20 anni Jim Ryan, presidente e CEO di Sony Interactive Entertainment, dà le sue dimissioni.

Sembra impossibile che i dirigenti della game industry non abbiano neanche pensato che dopo la pandemia gli investimenti nel settore potessero rallentare e che gli interessi sul denaro potessero crescere.

La manifestazione più evidente di questa visione miope è rappresentata dalla holding svedese Embracer Group che ha adottato, in pieno periodo pandemico, una strategia espansionistica aggressiva, portandola ad acquisire un significativo numero di studi di sviluppo, anche in Italia. Embracer arriva a possedere 120 realtà, con in cantiere più di 270, tra questi si parlava di 30 titoli AAA, videogiochi ad alto budget come Tomb Raider e il defunto Deus-Ex.

Nel maggio 2023 però la holding non riesce a chiudere un accordo da 2 miliardi di dollari con il Savvy Games Group, fondo di investimento saudita sostenuto dal Saudi Arabia Public Investment Fund.

In breve tempo il titolo crolla in borsa e Embracer, per parare la situazione critica, inizia a chiudere studi e ad abortire progetti avviati da tempo.

Le proprietà intellettuali, le IP di cui Embracer è entrata in possesso acquistando gli studi, diventa un nuovo problema, perché possono essere congelate o rivendute a terzi. Nel caso quindi che uno studio chiuso da Embracer volesse mantenere i dipendenti e continuare autonomamente a sviluppare il videogioco su cui stava lavorando, non potrebbe farlo, e si troverebbe costretto a iniziare un nuovo progetto.

 

L’insostenibilità del modello AAA

In questo contesto attribuire tutte le colpe di questa crisi a un’industria miope e guidata dal profitto è semplice, ma superficiale.

Il costo di produzione dei videogiochi negli anni è aumentato, raggiungendo cifre astronomiche per i titoli denominati tripla A, grosse produzioni che possono facilmente superare i 150 milioni di dollari.

In concomitanza con la lievitazione dei costi si sono dilatati anche i tempi di sviluppo e per tenere alta l’attenzione sui progetti si è alimentata una cultura dell’hype, ovvero delle aspettative da parte del pubblico, pericolosa.

Un sistema così concepito non prevede fallimenti, non rischia e non vola con la fantasia. È un sistema fortemente conservativo. Il gioco prodotto deve vendere molto per coprire rapidamente le spese e generare guadagno. Anche le vendite sotto le aspettative possono portare alla chiusura di interi dipartimenti se non a quella degli studi di produzione. Per ogni studio che ce la fa, che piazza sul mercato un videogioco di successo, un altro è destinato a scomparire.

Mentre sto scrivendo questo articolo è giunta la notizia che 61 persone dovranno lasciare il loro posto di lavoro presso Sega America a marzo.

La lista si allunga giornalmente e dopo il gennaio nero del videogioco non si può più parlare di assestamento, o di semplici ristrutturazioni interne, ma di una crisi sistemica dell’intera industria videoludica.

Fonte : Repubblica