Vittorio Magazzù da Rosy Abate ai Fantastici 5: “L’arma più potente che possiamo usare è la conoscenza”

Vittorio Magazzù interpreta Cristian nella fiction “I Fantastici 5” con Raoul Bova. In questa chiacchierata racconta il lavoro fatto sul suo personaggio, parla del suo amore per lo sport, della sicilianità e anche dell’arma più potente che abbia l’essere umano: la conoscenza.

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Sento Vittorio Magazzù al telefono a poche ore dal suo compleanno, classe 1997, l’attore siciliano ha compiuto 27 anni e già da qualche tempo è uno dei volti più promettenti del cinema e della televisione italiana. Protagonista di fiction di successo che gli hanno dato popolarità come Rosy Abate, La vita promessa e quel gioiellino di The Bad Guy su Prime Video, adesso è tra i volti de I Fantastici 5, la fiction Mediaset con Raoul Bova di cui stasera andrà in onda l’ultima puntata. Un progetto diverso dal solito, decisamente impegnativo, che lo ha portato a rapportarsi con una realtà lontana da quella che vive quotidianamente, ma d’altronde ha scelto di diventare un attore proprio per questo motivo, per esplorare mondi che ancora non conosce: “Credo che la conoscenza sia un grande strumento, il più importante che abbiamo, mi entusiasma l’idea di scoprire cose che non so”, come ci racconta in questa chiacchierata.

Il tuo 2024 è iniziato più che bene, con una fiction in tv, sarà di buon augurio. 

Non è neanche passato il primo mese e già è stato un 2024 pieno (ride ndr.) Direi che è iniziato bene, poi stasera è il mio compleanno e ho invitato un po’ di persone da me. Amici, qualcuno anche dalla Sicilia, lo stare insieme suggella quello che è stato il 2023, diviso tra il mio lavoro e le persone che amo di più.

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I Fantastici 5 è una serie in cui si affronta la disabilità, ma senza retorica. È un modo per normalizzare tematiche che sono considerate ancora dei tabù?

Il fatto di dover normalizzare è figlio di un retaggio socioculturale che ci portiamo dietro da anni. Esistono dei pregiudizi inconsci che toccano anche le persone più buone e mentalmente aperte del mondo, è un qualcosa che non ha nulla a che vedere con la purezza del singolo, il pregiudizio non lo controlliamo. Questa serie, sia per me che l’ho interpretata sia per chi la sta guardando, può servire ad accorciare le distanze da una cosa che abbiamo sempre visto lontana da noi, ci dà modo non solo di accettare la disabilità ma di vederla come se fosse la prima volta.

Cos’è che dovremmo vedere e che forse nella quotidianità ci sfugge?

Il distacco. L’atletica paralimpica, ad esempio, come le altre categorie di sport paralimpici, è sempre stata meno seguita perché probabilmente consideriamo la disabilità come un qualcosa lontano da noi, in cui non ci rivediamo. Quando racconti una storia, però, che sia al cinema o in tv, hai la possibilità di far entrare chi la guarda in una dinamica che fino a quel momento era considerata poco accessibile, rendendola fruibile. Così facendo, la disabilità riesce quasi a passare in secondo piano.

Dopo aver interpretato il personaggio di Cristian, hai mai ripensato ad atteggiamenti sbagliati che hai utilizzato in passato o hai avuto modo di ricrederti su false credenze acquisite sul tema?

Sì, assolutamente. Mi sono messo a servizio di questa storia, perché anche io prima ero solo spettatore di una realtà sportiva che non conoscevo. Mi sono avvicinato a questo mondo e mi sono reso conto, sembra quasi scontato dirlo, di quanto gli atleti paralimpici siano sportivi clamorosamente bravi. Inizialmente ero scettico nell’affrontare questa tematica, è quello che accade quando non conosciamo qualcosa e ne prendiamo le distanze. La conoscenza ti dà gli strumenti per comprendere quello che non sai e anche per giudicarlo, per viverlo.

Vivendo questa condizione sulla tua pelle, quindi, cosa hai capito?

Per diventare Cristian ho lavorato tanto. Il mio è stato un lavoro da normo dotato, basato tanto sulla conoscenza, quanto sull’interpretazione. Ho voluto instaurare un rapporto con Diego Castaldi (atleta paralimpico ndr.) che prescindesse dal lavoro di tutor per studiare il personaggio, quindi ho conosciuto la persona, l’atleta e solo allora ho sentito di potermi addentrare in un discorso più tecnico. Per quattro mesi sono stato in sedia a rotelle e automatizzare i movimenti senza l’uso delle gambe ti fa capire come in un certo lasso di tempo quasi dimentichi di stare in carrozzina. Diventa parte integrante della tua struttura fisica.

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Hai mai temuto di non risultare credibile?

No, non l’ho mai temuto. Ho sempre pensato di voler fare un lavoro nel quale potessero riconoscersi le persone che davvero hanno delle disabilità e quando ho conosciuto Diego gli ho chiesto di essere schietto, di dirmi tutto quello che facevo di sbagliato. Poi, un altro motivo che mi ha fatto essere sicuro della mia interpretazione risiede nel fatto che il mio personaggio gareggia per la categoria P54, il che significa che può sentire anche l’addome superiore, fin quasi al petto, mentre Diego è un P53 che ha sensibilità dalla prima parte dell’addome in su, quindi ha vincoli ancora maggiori nei movimenti e io ho lavorato basandomi su questa categoria.

Parlando del racconto senza retorica, da dove deriva l’arroganza che i protagonisti hanno sin dall’inizio, poi smorzata nel corso delle puntate?

L’arroganza dei personaggi, sin dalla sceneggiatura, l’ho sempre vista come un punto a favore, che avvalora il fatto che non ci sia pietismo nel racconto. Non è che le persone con disabilità siano meno str**ze di altre, in quanto esseri umani lo siamo tutti. I Fantastici 5 sono ragazzi iper competitivi, iper viziati in ambito sportivo, ma la loro arroganza è in realtà una grande maschera, è uno schermo di falsa sicurezza. Hanno paura.

Paura di non essere accettati?

Sì, ma credo in primis la paura di non riuscire a fidarsi di sé stessi, di non accettarsi prima ancora che lo facciano gli altri. Se sei tu il primo ad essere giudicante con te stesso, ovviamente patirai di più il giudizio esterno.

Sei anche tu un grande amante dello sport, avresti potuto avviare una carriera calcistica, ma hai scelto un’altra strada. Ora riesci a conciliare le tue due passioni?

L’anno scorso, a costo di stare fermo per due mesi col mio lavoro, ho deciso di operarmi al crociato, perché sentivo di non poter stare senza lo sport e il calcio, sarebbe stata una perdita troppo grande per me. Da un anno a questa parte ho ripreso a giocare, cimentarmi in altri sport, perché la competizione è qualcosa che mi piace molto. In più sono un gran tifoso del Palermo, sono un convinto palermitano non sono di quelli che tifa anche le strisciate, no io tifo solo Palermo.

Visto che hai rivendicato il tuo essere palermitano, nella tua carriera sei stato protagonista di fiction come Rosy Abate, La vita promessa, The Bad Guy, tutte storie che ambientate il Sud. Il fatto di poter raccontare la tua terra è stato un limite o un’opportunità per te? 

Sono profondamente legato alla mia cultura, ho sempre voglia, sia nella vita di tutti i giorni che nella mia carriera, di poter raccontare qualcosa che richiami la Sicilia. Sono sempre grato di queste proposte, interpretare ruoli da siciliano non rappresenta un vincolo per me. Ad esempio in The Bad Guy c’è stata una ricercatezza clamorosa, con Luigi (Lo Cascio ndr.) palermitano d’origine, che ama visceralmente il suo dialetto, insieme ad altri attori siciliani, è stato bellissimo lavorare. Devo dire, però, che c’è una cosa che un po’ mi dispiace.

Cosa?

A volte mi capita di percepire il fatto che il siciliano non sia entrato davvero nelle case degli italiani. Esiste una sicilianità molto più forte, distinta, di quella che vediamo in televisione. Il napoletano, ad esempio, magari grazie anche a serie come Gomorra ha avuto un impatto reale, anche chi è romano sa come parla un napoletano vero. Con il siciliano questa cosa non accade, nonostante abbia lavorato con attori straordinari non siciliani. Spero che nei prossimi anni ci sia davvero voglia di portare qualcosa di vero sullo schermo, perché la Sicilia è stata il cuscinetto di storie più ideali che reali.

Quindi trovi che il racconto che se n’è fatto finora sia macchiettistico?

Non direi macchiettistico, perché ritengo che sia un qualcosa che vada oltre la mera performance. Per quanto tu possa essere bravo a parlare in romano, quella parlata non sarà mai naturale e non avrà mai lo stesso cuore di quando una cosa è cresciuta dentro di te. Non ne faccio un discorso solo dialettale, però mi piacerebbe che si raccontasse anche dell’altro.

D’altra parte la tua popolarità è nata con Rosy Abate. 

Assolutamente, infatti non rinnego nulla. Il mio personaggio, poi, non doveva nemmeno essere siciliano, infatti al provino finale sono arrivato con due attori che non erano siciliani. Poi, durante un’improvvisazione, mi è uscito un termine in dialetto e hanno scelto me, perché hanno ritenuto giusto che Leo avesse un collegamento con le sue origini, sebbene fosse cresciuto a Roma e girando per l’Italia.

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Quindi è un’esperienza che rifaresti?

Certamente. È stato bellissimo, non avevo restrizioni me le sono imposte io. Ecco, tornando alla sicilianità, qui si affronta un altro tema, perché un personaggio come quello interpretato da Giulia (Michelin), esula da questo discorso, perché Rosy Abate è iconica, come Luca Zinagaretti che fa Montalbano, lì non si cerca la perfezione, perché è uno di quei casi in cui va bene così.

Cosa ti appassiona del tuo lavoro di attore?

Il fatto di poter conoscere cose nuove. Ogni personaggio, ogni storia, mi appassiona di più se non la conosco, perché sarà Vittorio, ancor prima dell’attore, ad avere strumenti in più nella vita. La conoscenza credo sia l’arma più bella che possa avere un essere umano, è un’arma da custodire perché è un qualcosa che ti arricchisce, in maniera anche inconscia. Avere l’opportunità di fare un lavoro che mi permette di conquistare conoscenze nuove è la cosa più stimolante del mondo.

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Fonte : Fanpage