60 minuti è uno di quei film che fa dell’immediatezza la sua voce principale, sviluppando il proprio intero potenziale nella frenesia di una corsa folle e sconclusionata, in cui il dinamismo del protagonista e della stessa regia la fanno da padrone. Non un action troppo ragionato in termini di spettacolarità, ma piuttosto un viaggio in cui la frenesia plasma continuamente le sorti di una narrazione strettamente connessa con la corsa in atto e con un obiettivo che mano a mano sbloccherà una serie di ostacoli lungo il cammino del protagonista.
Arrivato sul catalogo Netflix il 19 gennaio, 60 minuti trasforma la semplicità di una narrazione diretta in un espediente che fonde la storia in atto con la struttura stessa del film. A ispirare ogni singolo sviluppo della pellicola diretta da Oliver Kienle c’è il tempo, inesorabile signore della vita, che freddamente scorre senza curarsi di nulla e nessuno. Così il racconto per immagini tenta di corrergli dietro, d’inseguire gli stessi minuti che fanno da titolo, sviluppando una trama sia semplice che costantemente frenetica e mai ferma (una dinamica simile l’abbiamo riscontrata anche nella nostra recensione di The Beekeper).
I 60 minuti più difficili di sempre
60 minuti si apre sulla storia personale di Octavio Bergmann (interpretato da Emilio Sakraya), un lottatore di MMA a livello professionale, diviso continuamente tra la sua carriera sportiva e le scelte personali che lo hanno portato ad avere una figlia in giovane età con la sua ex fidanzata.
Quando gli eventi sembrano puntare verso una narrazione sportiva, sfruttando la poliedricità delle stesse arti marziali di cui il protagonista è un esperto, tutto cambia e si trasforma attraverso una telefonata. Poco prima di un incontro importante, infatti, vediamo la madre della sua bambina che, spazientita dall’assenza continuativa come padre, lo minaccia di togliergliela attraverso vie legali. L’unico modo che Octavio ha per cercare di ovviare a questa situazione è presentarsi alla festa entro un’ora, così da mantenere fede a una promessa fatta in precedenza. Da tutto ciò scaturisce la corsa folle alla base di 60 minuti, ispirata dalla scelta improvvisa di uno sportivo che decide di abbandonare un incontro importante per correre dalla propria figlia. Una scelta del genere, però, avrà conseguenze ben più grandi e oscure di quanto Octavio si sarebbe mai immaginato.
Solamente un’ora divide il protagonista dalla figlia che compie sette anni, 60 minuti per attraversare Berlino e raggiungere l’abitazione della ex-fidanzata, sfidando non solo il tempo ma anche una manciata di loschi figuri che avevano puntato molto sull’incontro di MMA di Octavio, portando alla luce anche uno dei lati più negativi da sempre connesso con lo sport agonistico (già che ci siete non perdete i film Netflix di gennaio 2024).
Azione nostalgica e immediata
Come anticipato prima, 60 minuti si sviluppa partendo proprio dal tempo che scorre inesorabile per il suo protagonista. Dopo una veloce introduzione, veniamo immediatamente coinvolti in questa corsa folle, scandita continuamente dalle chiamate che Octavio riceve, dalle varie rivelazioni lungo il cammino, dagli scontri di coloro che vorrebbero fermarlo e riportarlo indietro e da un timer che scorre senza curarsi di nulla e di nessuno. In questo modo, il film risulta immediato fin dal principio, presentandoci una dinamica facilmente leggibile e puramente action nel suo sviluppo e crescendo di svolta in svolta. Un approccio del genere, ovviamente, limita le potenzialità del racconto per immagini, esponendoci a un prodotto semplicissimo, in cui è facile rileggere i modelli del genere action più triti, per poi imbrigliare il suo intero potenziale a qualcosa che intrattiene soltanto, senza innovare o sorprendere in nulla.
Non è difficile, infatti, leggere nelle trovate formali di 60 minuti rimandi diretti sia ai più recenti John Wick, che ai classici personaggi d’azione che negli anni ’70, ’80 e ’90 hanno reso storie come questa iconiche con la loro prestanza fisica e scenica. Tutta la magia e la fascinazione della pellicola derivano proprio dall’incredibile e continuo sforzo di un giovane che si spinge costantemente al limite pur di raggiungere la sua bambina, portandole magari un gattino come regalo e la torta di compleanno che le ha promesso. Il percorso di questo “eroe”, però, non è facile ma pieno di ostacoli che di volta in volta lo obbligheranno a muovere le mani contro i loschi figuri che, a quanto pare, hanno molto da rivendicare nei suoi confronti.
La scelta di un singolo in contrasto (inconscio in questo caso) a un sistema sportivo criminale e corrotto che aveva messo gli occhi su di lui cercando di farci soldi facili. La corsa di Octavio, quindi, si muove lungo due dimensioni estremamente chiare: da una parte troviamo l‘emotività ferita e insicura del protagonista, e dall’altra le ombre negative dello stesso sport in cui cerca da sempre di trovare la propria strada attraverso sacrificio e talento. La voglia di ricongiungersi con la figlia deve quindi scontrarsi con alcuni gruppi criminali indefiniti che hanno investito moltissimo su di lui e alle sue spalle, rivendicando una sorta di “giustizia street” nei confronti dello sportivo che ha abbandonato il proprio ruolo e compito per puro egoismo personale. L’emotività e la violenza sono le uniche due armi attraverso cui Octavio potrà farsi strada in un contesto urbano che si espone in prima persona, arrivando a parlare una lingua tutta sua.
Una città e un combattente
Se da una parte 60 minuti riesce a convincere e lasciare il segno grazie alle sue sequenze action studiate e coreografate, dall’altra rapisce grazie al contesto in cui l’intera vicenda avviene e si sviluppa gradualmente. Ecco che la stessa città di Berlino passa dall’essere un semplice sfondo cittadino, al diventare un vero e proprio personaggio a sé stante con un linguaggio tutto suo. Nella corsa di Octavio non sarà difficile entrare in contatto con le sue strade dalle tinte fredde, e con l’estetica di un’architettura tanto mutevole e rigida quanto la determinazione del protagonista.
Oltre agli scorci e ai dettagli stradali, 60 minuti si lancia a capofitto anche nelle ipocrisie abbastanza manifeste di una città enorme e soverchiante e totalmente insensibile in alcuni frangenti. In tutto ciò ci troviamo a contatto con un personaggio principale che fin da subito vuole distaccarsi dai cliché di sorta in questo senso senza però riuscirci mai veramente, cercando con tutte le proprie forze di esprimere quello che ha dentro anche a costo di sbaragliare l’intera metropoli sul suo cammino.
In questo il film risulta ulteriormente interessante, disegnando sulla figura di Octavio l’immagine di un uomo tormentato dalla sua vita e dalle scelte che ha preso fino a questo momento, capace di spezzare chiunque, per poi tirar fuori un cuore che ne completa la caratterizzazione a schermo. Cuore e azione, però, non bastano a stupire, regalando al pubblico della grande N una pellicola che si serve dei modelli di riferimento più diretti per alimentare un’adrenalina atta al semplice intrattenimento. Non c’è nulla d’innovativo in questo 60 minuti, e va bene così.
Fonte : Everyeye