Vita dura per le band e i cantanti emergenti. Non solo i dati dello streaming musicale confermano che ogni anno decine di milioni di tracce audio non vengono ascoltate da nessuno, ma adesso su Spotify l’intelligenza artificiale è sempre più impiegata per creare playlist tematiche. E il fiuto del redattore esperto è sempre più snobbato.
Il centro nevralgico al solito è nei dati, soprattutto considerando che il business ormai è legato a doppia mandata con le piattaforme di streaming: l’ultimo rapporto 2023 di Luminate indica che sui 184 milioni di brani musicali presenti sulle piattaforme, circa l’86,2% ha ricevuto 1000 o meno riproduzioni. Ancora più eclatante è che 45,6 milioni abbiano registrato zero riproduzioni, provocando un danno a chi si occupa soprattutto di distribuzione, perché gli archivi hanno un costo. Si parla ormai di 120mila tracce nuove caricate ogni giorno su realtà come Spotify, mentre negli anni ’80 venivano pubblicate poche migliaia di musicassette o CD all’anno.
Un’altra criticità è legata al fatto che si sta passando da un modello di distribuzione delle royalty chiamato pro-rata a quello user-centric. Il primo (sinora più diffuso) considera tutti i ricavi della piattaforma (pubblicità e abbonamenti), sottrae un compenso tra il 30% e il 40% e distribuisce il resto ai detentori dei diritti: la distribuzione avviene sulla base delle percentuali di stream relative alle tracce e i grandi sono favoriti rispetto ai piccoli. Il secondo modello, che Spotify introdurrà a partire da questo trimestre, prevede che una traccia, per monetizzare, raggiunga una soglia minima di ascoltatori (ancora da definire) e di riproduzioni (almeno 1000).
L’IA toglie il lavoro ai curatori di playlist
Ed ecco spiegato il motivo per cui Spotify ha aperto sempre di più all’intelligenza artificiale. Se un tempo le playlist godevano della competenza e sensibilità dei curatori umani per scoprire nuovi fenomeni, adesso l’obiettivo sembra essere quello di ridurre ogni imprevisto, giocare sul sicuro massimizzando il numero di riproduzioni e sfruttare al massimo statistiche e analisi dei dati. Come spiega Bloomberg, se a partire dal 2015 la playlist di hip hop RapCaviar su Spotify ha consentito di fare debuttare nel panorama mondiale artisti (allora) totalmente sconosciuti come Cardi B, in seguito gli algoritmi di selezione musicale di TikTok hanno stimolato una nuova riflessione. I sistemi automatizzati di suggerimenti sostanzialmente piacciono al grande pubblico e funzionano senza grandi rischi.
Un ex dipendente di Spotify ha definito “meritocratica” questa transizione, visto che è basata sui dati, e meno legata ai gusti dei curatori. Negli anni ne sono stati licenziati molti e i team umani sono diventati sempre più piccoli. Alcune playlist sono totalmente automatizzate, altre solo parzialmente. L’azienda incoraggia i pochi rimasti a usare meglio i dati e a taggare i brani per aiutare l’IA nei suoi compiti. Il primo effetto collaterale, secondo i dipendenti delle major, è di aver riscontrato un calo delle riproduzioni: con lo storico RapCaviar, la contrazione è stata tra il 30% e il 50%. Come se si fosse disperso un po’ di valore.
“A tutti piace essere presenti nelle playlist, ma è ancora come tutto il resto nell’industria musicale, non c’è cosa che funzioni – ha dichiarato Jody Whelan, che gestisce la Oh Boy Records – Tutti lo fanno perché sperano che porti al prossimo successo”. Di diverso avviso Sulinna Ong, responsabile editoriale globale di Spotify, che ha confermato che ci saranno sempre le playlist editoriali e che la loro audience cresce costantemente, solo che i gusti sono sempre più diversificati.
E quindi che cosa può fare un artista emergente? Forse provare il nuovo Discovery Mode ideato da Spotify che consente agli artisti di godere di una spintarella dell’algoritmo (durante l’ascolto radio o riproduzione automatica) in cambio di un tasso di royalty inferiore. Più visibilità ma meno ricavi del solito, in pratica.
Fonte : Repubblica