Vi è piaciuto Povere Creature? Allora non potete perdervi questi 5 film

Dalle commedie nere del periodo greco, alla maturità dei titoli in lingua inglese, passando per il formato breve – si pensino corti, come Nimic, gli spot pubblicitari o i videoclip musicali degli esordi – l’arte sui generis e controversa di Yorgos Lanthimos è riuscita a passare, in circa quindici anni, dal pubblico di nicchia a quello più generalista e di massa. Il greco ha saputo, velocemente ma con coerenza, farsi strada nel panorama prima europeo e poi mondiale, senza snaturarsi ma, anzi, adattando i suoi temi e il suo stile a produzioni sempre più grandi riuscendo, in quasi ogni occasione, a vincere premi in alcuni dei festival più importanti.

Per l’uscita nelle sale italiane della sua ultima fatica da regista (qui la recensione di Povere creature!, che ha ricevuto ben 11 nomination agli Oscar 2024), più che riflettere sulla sua poetica, vi consigliamo cinque opere che possono, ognuna per motivi differenti, ricordare il suo cinema, dalla radicalità degli esordi fino al recente sodalizio con Emma Stone.

Attenberg

Un’intera generazione di cineasti greci ha provato, con fortune alterne, ad affacciarsi sul panorama internazionale, per raccontare del preoccupante stato di un paese alla deriva. Tra i tanti, Athina Rachel Tsangari è l’autrice che ha più legami con il primo Lanthimos – quelllo di Kinetta, Dogtooth o Alps. Il suo Attenberg (titolo che viene dalla storpiatura del nome del naturalista britannico David Attenborough), è una bizzarra storia di crescita, di un’amicizia e un rapporto non convenzionali, nel quale domina la condivisione dell’irrazionale. Molto in linea con le stranezze tipiche del nuovo cinema greco, il film spinge su un umorismo distaccato e respingente – cosiddetto deadpan – che risulta però sempre seducente anche se grottesco, lontano da una linearità e un’espressione delle emozioni canonica.

Sullo scheletro di quello che potrebbe sembrare un coming of age, la riflessione investe principalmente la moderna condizione sociale della nazione e lo stato mentale dei giovani greci, corroso e confuso. Slabbrato, difficile da seguire e disordinato, Attenberg è un’opera libera, meno cerebrale di alcuni degli iniziali lavori di Lanthimos – tra l’altro, qui in veste non solo di produttore ma anche di attore – ma non per questo priva di fascino.

Tsangari sa essere cinica e ancorata al presente, quando si prende gioco della decadenza culturale che ha davanti a sé, ma allo stesso tempo distante, nella creazione di una stilizzazione della realtà e un microcosmo nel quale domina l’eccentricità. Forse non un esperimento totalmente riuscito ma esemplare per comprendere, almeno in parte, quel contesto storico-artistico da cui viene il regista di The Lobster.

L’angelo sterminatore

Maestro dichiarato per il greco, Luis Bunuel è uno dei riferimenti primari e palesi per il cinema di Lanthimos. Difficile scegliere quale opera del surrealista sia più vicina a quelle del greco: da Il fascino indiscreto della borghesia a Viridiana, da Quell’oscuro oggetto del desiderio a El, sono parecchi i punti di convergenza tra i due e un solo titolo non può bastare. Se la scelta ricade su L’angelo sterminatore è poiché esso può facilmente ergersi simbolo di un’intera poetica, nonché fonte di ispirazione per molti di quelli che, negli anni avvenire, hanno voluto parlare di società con toni inconsueti.

Pregno di simbolismo, forse tra i più densi testi del Novecento cinematografico, il film del 1962 è uno straordinario e spietato saggio che sintetizza lo stile dell’autore spagnolo, naturalizzato messicano, rigoroso ed essenziale in superficie ma sovversivo e allegorico nel profondo, nell’animo percorso e attraversato da risemantizzazioni costanti, allegorie fuorvianti e ossessioni artistiche primigenie come l’animazione improvvisa di oggetti e arti o la ripetizione degli eventi.

Ciò però non mina mai la fluidità di un’opera che, a prescindere dai significati e dal senso, può risultare, a ben vedere, come uno spietato ma esilarante scherzo, una presa in giro della classe borghese e della loro incapacità, della loro inettitudine. Protagonisti prediletti della filmografia di Bunuel, questi vacui e altezzosi individui, se costretti da un bizzarro e inspiegabile imprevisto – non riescono più ad uscire dal salone della casa di cui sono stati ospiti, come se fosse presente un invisibile muro che vieta loro di metter piede fuori – regrediscono all’animalesco, si spogliano dei loro vestiti e danno sfoggio del peggio che il corpo e la mente possono offrire, ipocrisie, pulsioni carnali, debolezze mentali. Che forza iconoclasta, che vigore filmico e che attualità anche dopo oltre sessant’anni.

Rimini

Ulrich Siedl non è mai un regista facile da affrontare, non mette a proprio agio e, anzi, tende a generare un senso di destabilizzazione emotiva come pochi altri nel panorama europeo. La sua Rimini non è più la città sognante di Fellini: dai colori spenti, nuvolosa e triste, essa riflette i suoi protagonisti, in particolare Richie Bravo, cantante fallito e vagabondo. È questa l’umanità desolante che il regista tedesco da sempre ritrae, in piena solitudine, come fantasmi allo sbaraglio che hanno perso le emozioni, che fingono e vanno avanti per inerzia.

Nulla, infatti, ha più sapore, niente è più triste o erotico, piacevole o fastidioso. Come già nei suoi documentari – lo spiazzante In the Basement ne è forse il punto più alto, nel quale il ridicolo è il punto di partenza per mettere in piedi un ragionamento sulla natura umana – sono poche le possibilità di salvezza, a prescindere dalle possibili distinzioni di classe, genere e quant’altro.

Il suo sguardo disilluso non prova pietà per la società che mette alla berlina, che ridicolizza. Rimini è l’ennesima sua opera che pone svariate domande, senza fornire quasi mai risposte, che scuote e che sa essere tagliente senza didascalismi. Il cinema di Seidl si avvicina a quello del regista di La Favorita soprattutto per lo stordimento che genera attraverso le atmosfere, non lontane dalla realtà e perfettamente immaginabili ma, allo stesso tempo, metafisiche e lontane dal reale. Il suo è un mondo anaffettivo che ha perso la vivacità, deluso e fallimentare, come isolato in un limbo in cui non si è mai realmente tristi ma non si può raggiungere la stabilità.

Dillinger è morto

Riassumere in poche parole il cinema italiano degli Anni Sessanta e Settanta è impresa ardua, specie se si pensa alle molto più che eterogenee tendenze, le molteplici scuole e idee, contesti produttivi e artistici. Un posto di rilievo occupa Marco Ferreri, autore, tra più anticonformisti, che ha saputo cogliere i vizi, molti, e le virtù, a dir la verità non tantissime, della società del tempo, nella descrizione insolita e deformante delle caratteristiche che la portarono alla deviazione morale.

L’uomo moderno, in Dillinger è morto, viene ritratto come alienato, quasi senza accorgersene (l’affondo sull’alienazione è più ironico e violento, ad esempio, rispetto a quello che mostrava, negli stessi anni, Antonioni), distaccato da una realtà consumistica che lo ha mutato, lo ha provato della sua libertà individuale e lo ha disumanizzato, meccanizzato e reso solo, mettendo fine alla sua identità e facendo nascere l’automa odierno per il quale nulla ha più senso – interpretato da un Michel Piccoli in stato di grazia – al quale resta solo morire per poter iniziare a vicere.

Un cinema oltre il nichilismo e rarefatto, anomalo nel panorama italiano dell’epoca ma nettamente in anticipo sui tempi e lucidamente sferzante, che con pochissimi dialoghi incarna la summa della filmografia del regista, funebre, mortifera e irritante, sempre attenta a parlare dell’uomo anche quando sembra raccontare un universo anestetizzato, come in questo caso, o bestiale, come nell’estremismo materiale de La grande abbuffata.

Così reale da sembrare finto, così concreto da arriva all’astratto e all’universale. Un progetto ancora oggi inclassificabile, non commentabile con precisione, ma che conserva intatta la sua energia dirompente. Dillinger è morto è uno dei vertici più alti della storia del cinema italiano, per certi versi, probabilmente, lo si potrebbe anche definire il più alto.

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza

C’è un po’ di tutto nei lavori dello scandinavo Roy Adersson, c’è la vita intera riassunta e congelata negli istanti messi in scena. Il suo Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è un ritratto denso e stratificato del mondo, che fonde con semplicità e naturalezza umorismo grottesco e tragedia, ironia beffarda e triste amarezza. È un viaggio, quasi più un vagabondare, avanti e indietro, attraverso le esistenze e il vivere di uno svariato numero di maschere, dentro un’umanità spenta e spoglia, destinata a soccombere senza poter controllare il proprio destino, rassegnata nella quotidiana discesa nell’oblio.

Ciò che rende quest’opera, Leone d’oro a Venezia nel 2014, un gioiello narrativo e visivo è però la maniera con la quale questa condizione viene realizzata: lo sguardo indaga ogni aspetto con attenzione, rende ogni particolare degno di esser esplorato e lo riveste di una carica comica impareggiabile, che sembra quasi rinvigorirsi davanti alla condizione più misera – come già faceva in Canzoni dal secondo piano e You, the Living.

Con questo senso del grottesco, della stranezza bizzarra e respingente – unita agli splendidi toni della fotografia, ma anche delle scenografie, che trasformano ogni ambiente in un tetro teatro dell’assurdo beckettiano – i singoli episodi trovano una potenza espressiva maggiore, grazie alla quale il tragico e il divertente, mescolandosi, danno vita ad una commistione dolceamara, delicata e malinconica. Un’arte fuori dal tempo, quella di Andersson, che cura perfettamente sia i raggelanti quadri visivi – dei tableaux vivants nei quali non sembra contemplato alcun movimento di macchina – che la gestione dei tempi, delle battute, degli spazi e del suono. È raccontare per immagini, cinema allo stato puro.

Fonte : Everyeye