AGI – C’è Domenico, da trentuno anni è qui, non è mai uscito da qui perché è un ergastolano ostativo. Juri Aparo, lo psicologo che lo ha chiamato sul palco del teatro del carcere di Opera assieme a una decina di reclusi del ‘Gruppo della Trasgressione’, gli da’ la parola: “Comincia tu che sei il più vecchio, non si sa se poi magari muori”. Domenico ride. Ha una stampella e le pieghe sul viso di chi non viene toccato dalla luce da tre decenni. E si mette a raccontare per filo e per segno con la vividezza di un ragazzo innamorato ‘Delitto e Castigo’ di Fëdor Dostoevskij, la storia di uno studente tormentato dalla miseria che uccide una vecchia usuraia e sua sorella. E vicino a Domenico e a quelli del gruppo siedono gli studenti di legge e psicologia dell’età di Raskol’nikov, i familiari di persone che hanno perso un affetto a causa di un reato e l’ospite Paolo Nori, lo scrittore che attorno alla letteratura russa ricama romanzi, traduzioni e altre fantasmagorie. “Hai raccontato benissimo” dice Nori a Domenico.
Poi c’è il pubblico ministero Francesco Cajani che ha partecipato agli incontri in quella che è diventata l’’Aula Dostoevskij’ del carcere di massima sicurezza dove ogni settimana, per un mese, si sono trovati al mercoledì mattina quelli che sono qui a spiegare come sia possibile che pagine scritte nel 1866 possano, prendendo a prestito un titolo di Nori, sanguinare ancora e, dopo essere colate lungo l’anima, trasformarsi in sorgente o restare anche sangue perché qui non c’è niente di semplice. Facile a prima vista per un condannato immedesimarsi nel protagonista che però ha tali e tanti anfratti da suggerire prudenza nel confronto.
“Eletti o pidocchi?” domanda Aparo, da decenni impegnato con passione e provocazioni a far camminare insieme colpevoli, vittime e resto del mondo, ciascuno alla ricerca del suo pezzo di pace. Francesco ha un pensiero che poi in modi diversi esprimeranno in tanti: “Il protagonista si considera un ‘eletto’ perché motiva il duplice omicidio col fatto che l’usuraia rappresentava un danno alla società. Dopo delira, vive l’angoscia e la solitudine. Anche io come Raskol’nikov mi sono sentito un eletto, invece ora so che sono sempre stato un pidocchio, proprio come lui considerava l’usuraia: un essere dannoso e inutile. Leggendo, ho sentito le emozioni e i conflitti che viveva, fino alla confessione e all’accettazione della condanna grazie alla donna che ama, Sonja ”. Marisa Fiorani, madre di Marcella, uccisa dalla Sacra Corona Unita: “A 82 anni ho scoperto la figura di Sonja con la quale penso di avere qualcosa in comune. Quando hanno ammazzato mia figlia, ho combattuto da subito con me stessa per non farmi rinchiudere nel dolore. Ho allungato le braccia, non sono mai stata sola ma in compagnia di questo progetto che era dentro di me. Nel 2016 ho chiesto di entrare in carcere e ho trovato il dolore che c’era dall’altra parte e braccia spalancate come le mie. Sonja non faceva prediche, non voleva convincere Raskol’nikov a tutti in costi ma in silenzio e a braccia aperte l’ha portato a scontare quello che aveva fatto”.
Nori lo sa se è eletto o pidocchio o meglio, nella sua traduzione, Napoleone o insetto: “Quando a 15 anni ho letto ‘Delitto e Castigo’ mi sono sentito Raskol’nikov e da allora non ho mai pensato di essere un eletto. I romanzi di Dostoevskij, quelli che leggiamo ora, sono figli della sua esperienza in carcere per dieci anni. Quelli di prima non li leggiamo”.
Sebastiano, che da aspirante magistrato sta assaggiando la giustizia negli uffici della Sorveglianza, da dove passano tutti i detenuti, è grato al protagonista: “Mi ha dato la possibilità di percepire l’essere umano dietro il condannato, il suo senso di marginalità. Il carcere viene visto come un punto di fine ma è un inizio. Ora so con certezza che quando avrò davanti un fascicolo penserò che non è solo un nome ma prima di tutto un essere umano”. Alberto Nobili, magistrato che ha da poco tolto la toga dopo aver diretto alcune delle indagini più importanti della storia italiana, lascia una traccia a Sebastiano e per una volta tocca a lui una confessione offerta ai trecento seduti in platea: “Dopo 43 anni da pubblico ministero nell’’Aula Dostoevskij’ mi sono trovato a fianco di persone che avevo fatto condannare e ne è venuta fuori una magnifica armonia in cui ciascuno era uno strumento musicale che portava la sua interpretazione. Solo partecipando a questi incontri mi sono reso conto che una parte importante del mio essere magistrato era stata omessa. Credo che la mia esperienza vada estesa a tutti i magistrati”.
L’Aula si trasferirà presto nel carcere di Bollate per la lettura dei ‘Fratelli Karamazov’.
Fonte : Agi