Perché non si dice “piacere”? Qual è il motivo per cui questo termine tanto mite che evoca un “senso di viva soddisfazione derivante dall’appagamento di desideri, fisici o spirituali, o di aspirazioni di vario genere” – per dirla con la definizione di Treccani – meriterebbe l’ostracismo quando ci si presenta a qualcuno? Gli avvezzi all’esclamazione così comune nella vita di ogni giorno potrebbero strabuzzare gli occhi nel considerare che ci possa essere davvero una qualche ragione valida per non pronunciarla, ma così è: secondo una lettura delle buone maniere delle presentazioni più attenta alla forma che alla sostanza, la parola “piacere” andrebbe evitata al primo incontro.
Magari saperlo non servirà a non pronunciare più dall’oggi al domani quel “piacere di conoscerti” (o “di conoscerla”) sempre ritenuto giusto per sciogliere il ghiaccio delle presentazioni. E va pure bene così: sempre benvenuta sia la varietà dell’approccio quando, purché garbatamente, esprima la libertà di omologarsi o meno a un modo di dire e di porgersi. Forse, però, almeno interessante sarà sapere che il suggerimento di evitarlo non è il frutto di un’imposizione partorita dal capriccio di qualche purista del sedicente savoir-faire, ma la conseguenza di una riflessione che considera la sincerità come caratteristica essenziale da mostrare già quando esordisce nella vita di qualcuno.
“La prima impressione è quella che conta”
Sono in molti a sostenere “la prima impressione è quella che conta”, credenza che diversi studi si sono pure impegnati a comprovare. Una ricerca pubblicata nel 2020 sul Journal of Research in Personality, per esempio, ha simulato in un laboratorio di psicologia gli incontri cosiddetti “speed-date” (quelli della durata di pochi minuti in cui degli sconosciuti si incontrano per il potenziale avvio di una relazione romantica) e ha rilevato come davvero sia possibile formarsi subito un’impressione accurata, benché la precisione di tali impressioni dipenda anche dall’espressività delle persone.
In effetti, a pensarci bene, al netto delle indagini e al di là dei gusti personali che già da lontano si lasciano affascinare da un aspetto fisico, da un certo modo di vestire, da un tono di voce o da un profumo particolare, ciò che davvero può colpire molto al primo incontro è proprio il modo di presentarsi. A partire dalla stretta di una mano che può far sorgere le prime perplessità a seconda che sia offerta floscia come l’avanzo di una vitalità perduta oppure forzuta come una tenaglia che indolenzisce falangi. Con la stessa intensità, dunque, anche le parole che accompagnano il gesto troppo avvilente o troppo impetuoso possono rincarare il peso della “famosa” impressione che tanto sarà positiva quanto più apparirà autentica e sincera, nel gesto e nelle parole.
Cosa si dice al posto di “piacere”?
Ed è proprio da qui che ha origine il monito a non dire “piacere” quando si conosce qualcuno: dall’osservazione per cui esprimere una sensazione di soddisfazione prima ancora di iniziare una conversazione che si riveli davvero tale è solo una formalità, una parola vuota e perciò finta. Il piacere – riassume Sibilla della Gherardesca, autrice del libro intitolato proprio Non si dice piacere dedicato alle buone maniere dimenticate – “è ancora tutto da verificare e questa formula racchiude spesso il massimo dell’insincerità”.
E allora? Cosa si dirà al posto di “piacere”? C’è chi suggerisce di sostituirlo con un “molto lieto/a”, ma nemmeno questa formula convince sempre perché non si comprende quale possa essere la ragione di tutta questa “letizia”. Il consiglio più opportuno, dunque, è lasciare spazio a un’autenticità schietta che porga una mano decisa, stringa quella dell’altro e pronunci chiaramente il proprio nome e pure il cognome se si vuole, quest’ultimo non un dettaglio di mera forma, ma elemento di sostanza che rimarca la propria identità. Bene anche aggiungere un saluto, un “ciao”, un “buongiorno” o “buonasera” che si allinei a un sorriso come il più ben fatto biglietto da visita. Da evitare, invece, titoli autocelebrativi di professioni e corsi di studi come “dottore” o “professore” che alzano il rischio di apparire saccenti nei contesti che non richiedono qualificazioni di questo tipo: se l’impiego o la carriera sarà utile per fornire spunti di conversazione dopo la presentazione, meglio che sia una terza persona a raccontarli. “Chi si loda s’imbroda” dice la saggezza popolare, non a caso.
Solo alla fine di una conversazione, solo al momento del congedo, se davvero un piacere c’è stato, potrà avere senso – allora sì – l’espressione “piacere”, quando si avvertirà la genuina sensazione che indurrà a dire ciò che veramente si è sentito: la soddisfazione di aver fatto una nuova bella conoscenza. E se così non sarà, meglio star zitti: che a un educato “arrivederci” segua il più eloquente dei silenzi.
Fonte : Today