Elezioni Taiwan: c’è davvero un rischio di guerra con la Cina?

L’esito del voto di Taiwan apre nuovi scenari di tensione tra Cina e Stati Uniti? È presto per capire quale piega prenderanno le relazioni fra le due superpotenze, alla luce dei rapporti che si sono incrinati negli ultimi anni. La conferma di un terzo storico mandato consecutivo del Partito progressista democratico (DPP), ora nelle mani di William Lai, fa tuttavia già intravedere le prime reazioni di Pechino. Reazioni sul piano diplomatico per ora, non militari. 

Washington non si allontana da Taipei

Andiamo per ordine. All’indomani della vittoria di Lai, sono arrivati i complimenti di Unione Europea, Regno Unito, Canada e Stati Uniti con il messaggio del segretario di Stato Antony Blinken rivolto ai taiwanesi per aver “dimostrato la forza del suo sistema democratico”. La Cina non ha apprezzato le parole di Washington e delle altre cancellerie, perché rappresenterebbero una violazione della “One China policy”, dal momento che Taiwan sarebbe per Pechino parte inalienabile del territorio cinese.

“La Cina tenta di condizionare le elezioni a Taiwan, i governi stranieri ci aiutino”

Con la vittoria di Lai, alcuni analisti sostengono che Taiwan continuerà ad approfondire i legami con gli Stati Uniti e altre democrazie. Tanto che sull’isola, che vanta il sostegno militare di Washington, è sbarcata il 14 gennaio una delegazione americana di cui fanno parte l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, Stephen Hadley, e l’ex vice segretario di Stato James Steinberg. Non è una novità. Anche nel 2000, nel 2008 e nel 2016 era stato inviato un gruppo subito dopo il voto. Questa volta, però, la delegazione è di più alto profilo rispetto al passato. La visita non va quindi letta come una mera dimostrazione di sostegno a Lai, ma come una richiesta di conferma al mantenimento dello status quo.

Ed è quello che sicuramente accadrà: per quanto Pechino lo definisca un “pericoloso separatista”, Lai non ha intenzione di allontanarsi dalla retorica della presidente uscente Tsai Ing-wen, che ha guidato l’isola per gli scorsi otto anni. Quindi il democratico, che ha promesso di lavorare per mantenere il fragile status quo, continuerà ad avere legami solidi con gli Stati Uniti, cercherà ottenere un dialogo con la Cina per normalizzare le relazioni intra-stretto. Ma dovrà gestire la contrarietà della Repubblica popolare cinese, che sin da subito ha messo in chiaro di non voler avere un dialogo con il DPP, e l’ennesima fuga di Paesi che riconoscono l’isola.

Uno degli alleati diplomatici di Taiwan, l’isola di Nauru, ha rotto i rapporti con Taipei, finendo nell’abbraccio di Pechino: scendono così a 12 i Paesi con cui l’isola mantiene rapporti formali. La convinzione – vista la tempistica non casuale – è che si tratti di una “rappresaglia” post-elettorale, così che la Cina possa vantare comunque un risultato diplomatico.

La difficile coesione del parlamento

Senza contare il successo politico. Dal voto del 13 gennaio è uscito un parlamento diviso. Nessun partito è riuscito a ottenere una maggioranza netta alle elezioni parlamentari (è la prima volta che accade dal 2004) e anzi il filo-cinese Guomindang con 52 seggi conquistati (su 113) ne ha uno in più del DPP, che dalle precedenti elezioni ne ha persi ben dieci. L’ago della bilancia sarà quindi il Partito popolare di Taiwan (TPP) di Ko Wen-je, con i suoi otto deputati. Il nuovo Parlamento si insedierà a febbraio – il 1° verrà eletto lo speaker – e Lai si troverà a dover fare i conti con uno Yuan legislativo di fatto spaccato. Il DPP ciononostante spera di poter fare ulteriori passi in avanti a livello sociale ed economico, dopo aver permesso a Taiwan di diventare di primo luogo in Asia per approvare i matrimoni omosessuali e garantire assistenza sanitaria universale e trasporti pubblici a prezzi accessibili. Ma Lai sa che ora la strada è tutta in salita.

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L’approvazione di un disegno di legge per l’aumento del budget della Difesa (misura vista come anti cinese) è quindi nelle mani dei deputati del TPP. Non è ancora chiaro cosa farà il leader del partito Ko, ora che di fatto è diventato la figura decisiva della politica taiwanese. In campagna elettorale si era detto favorevole all’aumento della spesa militare, ma anche propenso a stabilire un qualche tipo di accordo commerciale con la Cina.

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La sue posizioni assai ambigue su molte delle questioni più rilevanti per l’isola di Taiwan potrebbero aiutare il governo di Lai oppure metterlo in difficoltà: se decidesse di sostenere le politiche filo cinesi del Guomindang, in parlamento si concretizzerebbe quell’accordo con Hou Yu-ih sfumato durante la campagna elettorale. Gli analisti concordano che se il patto tra i leader del Partito popolare di Taiwan e del Guomindang fosse riuscito durante la corsa elettorale, Ko e Hou avrebbero vinto le elezioni, battendo Lai. Sarà importante capire chi li spunterà in parlamento: nuove riforme e approvazione di un aumento al budget di difesa passa anche dal ruolo dei deputati del TPP.

C’è davvero il rischio guerra?

Un conflitto reale o un’invasione di Taiwan da parte della Cina restano al momento improbabili. E le motivazioni sono di carattere economico e diplomatico. Partiamo da quest’ultima. La Repubblica popolare cinese, secondo diversi analisti, difficilmente passerà ad azioni drastiche, che sono state mitigate dal desiderio di mantenere stabili relazioni con Washington dopo l’incontro di novembre tra Xi Jinping e Joe Biden. Prima dell’insediamento di Lai alla presidenza, il prossimo 20 maggio, Pechino cercherà quindi di trovare un equilibrio tra intimidazioni verso Taipei e inviti estesi a Washington per tenere a freno Lai. 

Per mantenere elevato il livello di pressione su Taiwan, la Cina comunque condurrà esercitazioni militari nelle aree vicine all’isola e imporrà sanzioni mirate su alcuni prodotti taiwanesi. Ma per ora non si registrano avvisaglie militari. Secondo i giornalisti di Bloomberg Economics, l’Esercito popolare di liberazione cinese non sta ammassando truppe sulle coste meridionali del Paese, a causa anche dei ben noti problemi nell’esercito: la corruzione tra gli alti ranghi militari pone in difficoltà Xi a condurre una campagna di successo.

Messi da parte – per il momento – cannoni e artiglieri, quale sarebbe lo scenario di guerra più probabile? Pechino può ricorrere agli attacchi cibernetici o applicare un blocco marittimo dell’isola, per isolarla a livello diplomatico e commerciale. Ma per ognuno di questi scenari ci sarebbero ricadute economiche dure per tutti, non solo per Taiwan. Bloomberg Economics, infatti, stima il costo di una isolamento o di una guerra nello Stretto di Taiwan a circa il 10 per cento del Pil globale, con risultati economici peggiori rispetto a quelli registrati per la pandemia di Covid, la guerra in Ucraina e la crisi finanziaria globale del 2008. A pagare il prezzo maggiore non sarebbe solo Taiwan, ma anche la Cina e gli Stati Uniti, fortemente dipendenti dall’industria tecnologica e dei semiconduttori taiwanesi (Taiwan mantiene da anni la leadership con il 92 per cento della produzione globale di microchip avanzati).

Se Pechino volesse davvero colpire Taipei con misure economiche coercitive, dovrebbe tenere in conto di ledere i suoi interessi e le sue politiche studiate per rendere la Cina una superpotenza mondiale. E con le difficoltà sociali ed economiche che Pechino sta riscontrando dentro e fuori la Grande Muraglia, difficilmente è pronta a una guerra nello Stretto di Taiwan. 

Fonte : Today