Dopo l’uscita del non così fortunato documentario dedicato a Topolino (qui la recensione di Topolino la storia di un topo) DIsney ha pubblicato anche il corto Once upon a studio, toccante omaggio che ha commosso molti appassionati. Abbiamo anche la recensione di Wish pronta per voi. Senza contare il ritorno di Miyazaki (recensione de Il ragazzo e l’airone) e titoli animati molto importanti come Spider-Man: Across the Spider-Verse. Ma se Disney e Pixar (e ultimamente anche Sony o Netflix) hanno sempre dominato il mercato, tanti autori, produzioni e titoli animati meno noti e popolari hanno provato, sovente con scarsi risultati, di far breccia nel cuore del grande pubblico.
Cercando di trovare 5 capolavori d’animazione che non siano Disney o Pixar, si è cercato di di premere su uno sguardo quanto più possibile globale – un solo film viene dagli Stati Uniti – provando a far comprendere come quest’arte abbia, negli anni, offerto una varietà di possibilità espressive spesso sconosciute.
Anomalisa
Di Charlie Kaufman si parla sempre poco, soprattutto non si sottolinea mai la qualità di questo schivo e strano sceneggiatore di delineare ritratti così stratificati e complessi – spesso nascosti dall’esagerazione e dall’estrema articolazione delle trame dei suoi lavori, da scrittore e regista. Tutto cambia, però, quando l’insieme, il contenitore, è più calmo e controllato, così da far ruotare la sceneggiatura attorno al protagonista, ai suoi desideri e alle sue paure.
Finanziato su Kickstarter e animato in stop-motion insieme a Duke Johnson, Anomalisa è un progetto unico, non tanto per la tecnica utilizzata o per il racconto – ci sono tutti i temi cari al cineasta, dalla solitudine alla perdita dell’identità – quanto piuttosto per il magnifico equilibrio che si crea dalla commistione di tutti gli elementi di un dramma macchiato di un’ironia crudelissima.
Ed è spiazzante il modo in cui Kaufman lavora sul suo protagonista, distruggendolo dall’interno decostruendone la personalità, esplorando la psiche, il dolore e arrivando dritto allo spettatore, toccando il tasto giusto al momento giusto e lasciando che quelle emozioni, che tutti provano ma in pochissimi esprimono con così tanta sincerità, appaiano il più realistiche possibile. La forza di Anomalisa sta nel rivelare quanto il cinema del suo autore sia legato, oltre tutte le sovrastrutture viste ne Il ladro di orchidee o Sto pensando di finirla qui, a qualcosa di molto più primordiale.
The Night is Short, Walk on Girl
Devilman Crybaby, The Tatami Galaxy, Ping Pong the Animation o Mind Game. Queste sono solo alcune delle creazioni di Masaaki Yuasa, uno dei più importanti e talentuosi animatori dei nostri giorni (qui la recensione di Inu-ho, nuova perla uscita di recente). Ma il suo progetto più completo, forse summa di tutta la sua produzione precedente, specie dal punti di vista della scrittura, è spesso fuori dai radar e dalla discussione attorno alla sua arte.
The Night is Short, Walk on Girl segna un maturo punto di svolta nella capacità del suo autore di inventare, narrare e raccontare fluidamente e coerentemente dall’inizio alla fine grazie all’utilizzo delle caleidoscopiche immagini.
Per certi versi punto di vista opposto a quello offerto in The Tatami Galaxy (che pare esser ambientato in una sorta di stesso macro universo), questa piccola e folle nottata, dietro la maschera sgangherata, nasconde un animo molto più devoto ai sentimenti ma soprattutto alla positività. Yuasa si diverte e diverte, conseguentemente, lo spettatore, che non può non arrendersi a un umorismo giovane e fresco, a una costellazione di personaggi uno più irriverente dell’altro e una serie di eventi – che sarebbe meglio chiamare ostacoli, intralci o, a conti fatti, benedizioni – che danno vita a un incessante moto perpetuo. Perché fin dal titolo, The Night is Short, Walk on Girl ci indica che non bisogna fermarsi.
Allegro non troppo
In un articolo in cui si raccoglievano 5 grandi film di fantascienza che purtroppo in pochi hanno visto, è stato evidenziato come anche in Italia, nei frenetici Anni Sessanta e Settanta, si provò a giocare con i generi, le sperimentazioni narrative e tecniche. La fruttuosa stagione non lasciò in disparte l’animazione, che trovò terreno fertile tra le mani di un assoluto maestro come Bruno Bozzetto.
Partendo dal cult Fantasia, del 1940, l’artista italiano prova a farne una sua versione, quasi schernendo e parodiando il predecessore, mostrando i vari segmenti animati con toni e umori sempre diversi, passando dal malinconico al vivace e fantasioso, senza dimenticare quel tipo di analisi di costume e sociale (parlando di consumismo, politica e psiche) che aveva affrontato in altri lungometraggi, come ad esempio Vip – Mio fratello superuomo.
Anche grazie alla geniale alternanza tra i brani musicati e animati e un farsesco fil rouge in carne ed ossa – nel quale si tenta di mettere in scena la musica suonata da un’orchestra composta da anziane, tramite i disegni di un animatore oppresso dal direttore d’orchestra – Allegro non troppo si distingue come il vertice più alto dell’animazione italiana, esempio della libertà artistica che il cinema animato offre. Avanguardia, sperimentalismo visivo, traduzione fantasiosa della musica in immagini: nei brevi corti di cui di compone l’insieme del film di Bozzetto sembra esser condensata l’arte nella sua totalità.
The Fake
Che rabbia e che disperazione! Quando l’animazione gioca le sue carte in questo modo, non si può fare altro che restare a bocca aperta. The Fake è una di quelle opere che ci si porta dietro a lungo, che dopo la visione si sedimentano e non smettono di infierire, riportando alla mente le sequenze di quello che è un capolavoro quasi sconosciuto.
Un cinema tutt’altro che popolare quello di Yeon Sang-ho (autore, tra l’altro, della trilogia di Train to Busan), lontano dalla convenzionalità dell’animazione più mainstream per stile, asciutto e sporco ai limiti dell’abbozzato, ma soprattutto per contenuto. Il film del 2013 è un ritratto estremamente pessimistico di una provincia e di una società ignorante, violenta, impaurita e approfittatrice, in cui non esistono buoni – nessuno è davvero un eroe o vuole fare del bene, anche chi sembra il meno coinvolto nel male è comunque l’individuo peggiore che si possa immaginare – e non è contemplata neanche la speranza, tantomeno la salvezza.
Oltre a ciò, è la religione a esser presa severamente di mira, dipinta come bugiarda creatrice di illusioni, ultima speranza a cui una comunità sull’orlo del baratro può appendersi e che di ciò può approfittarne. The Fake mette le cose in chiaro sin dalla prima scena, nella quale davanti a una chiesa un povero cane viene malmenato: un’opera forte che fa a pezzi lo spettatore così come fa con i suoi personaggi, in cui niente è come sembra e non esistono i mezzi termini, nella quale non trovano spazio carezze ma solo continui colpi. Come quel finale sconvolgente, che torna in mente persino a distanza di anni, ancora forte come la prima volta.
Bubble Bath
Alzi la mano chi conosce György Kovásznai. Il genio del regista e pittore ungherese è a lungo rimasto ignoto – anche per via della scomparsa prematura, che non gli ha permesso di approfondire il suo percorso artistico ed espanderne le potenzialità – soprattutto al di fuori dal paese d’origine. Ed è un gran peccato, perché opere come Bubble Bath (Habfürdo), suo terzo lungometraggio del 1979, rischiano di non avere il successo che meriterebbero.
Un musical convulso, psichedelico e in preda a nevrosi, le stesse di quella società moderna, in piena crisi e disillusione generazionale dettata dal consumismo e da una modernità tanto distruttiva quanto confortevole, che ritrae con lucidità e intelligenza ma senza appesantire. Ambientato in pochi ambienti interni, con pochi personaggi e una trama piuttosto scarna – un uomo in procinto di sposarsi non è per nulla convinto della scelta e inizia a sfogarsi con la migliore amica della sua futura moglie – ciò che cambia il gioco di una tale struttura è il modo in cui tutto ciò viene ritratto.
Domina la scomposizione di tutti gli organismi visuali, dalle scenografie “viventi” ai personaggi, i colori lisergici e un’eclettica sperimentazione grafica: un’esperienza spassosa anche e soprattutto in virtù di una colonna sonora a dir poco travolgente che è, insieme ai movimenti astratti e deformanti, elemento fondamentale per esprimere emozioni e sentimenti. Una scheggia impazzita nell’Ungheria degli Anni Settanta che mantiene ancora oggi intatto il suo fascino dirompente.
Fonte : Everyeye