È il momento di Pietro Castellitto, in Italia. Dopo una partenza che gli aveva permesso di farsi largo tra le trame del cinema italiano sfruttando la scia del cognome che porta, adesso il poco più che trentenne regista e attore romano non ha di che temere: non è più il “figlio di”, ma un autore a tutto tondo, che riesce a creare interesse attorno a sé e alle sue produzioni, che si tratti di romanzi o di film.
E mentre la sua carriera da attore procede, si intreccia nel miglior modo possibile quella da regista, che lo conduce al secondo film, Enea. Sceneggiatore, regista e protagonista, Castellitto continua su quel fil rouge che era già stato della pellicola d’esordio (qua la nostra recensione de I predatori) – per dissacrare Roma, la borghesia e tutto ciò che le gira attorno, scadendo in alcuni elementi derivativi, ma offrendoci uno spaccato efficace.
I palazzi non acquistati
Enea è un giovane borghese, cresciuto in una famiglia ricca: il padre (Sergio Castellitto) è uno psicologo di successo, la madre (Chiara Noschese) conduce una rubrica televisiva sui romanzi del momento.
Si divide tra la proprietà di un ristorante sushi e il circolo di tennis, ma per sfuggire alla noia e accrescere la sua potenza (non il potere) si ricicla spacciatore di cocaina. Insieme all’amico Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio aliasi il rapper Tutti Fenomeni), aviatore in erba sui limpidi cieli romani, decide di mettere in piedi un affare da venti milioni di euro con l’aiuto di Gabriel (Matteo Branciamore), un guercio proprietario della discoteca più frequentata di Roma, e un narcotrafficante di nome Giordano (Adamo Dionisi). Enea è un film in cui le vicende dinanzi alle quali ci troviamo accadono senza un preambolo o un epilogo: l’occhio dello spettatore segue la camera, l’inquadratura, senza dover fornire troppe spiegazioni sul perché e sul come. Una scelta stilistica, che restituisce un risultato quasi verista della scena romana: non c’è la necessità di andare a sbrogliare la matassa dietro il narcotraffico o preoccuparsi delle guerre tra gang, tantomeno quando compariranno le pistole, gli spari, le minacce, le percosse. Non ci interessa sapere qual è l’intreccio, ma vivere quella situazione. L’occhio di bue è piantato sul presente e sul momento, su ciò che accade a Enea, sull’incontro con Eva (Benedetta Porcaroli) e ciò che significa per il protagonista. Il bailamme degli interpreti, compreso il fratello minore Brenno (Cesare Castellitto), è un poutpurri di vicende che confluiscono in un mal di vivere, in un desiderio di far cadere la propria maschera per rivelare qual è il disagio interiore.
Il mal di vivere di Roma nord
Nel sorprendente esordio di Tutti Fenomeni c’è il desiderio di amare incondizionatamente, ma anche di evadere da un trauma che gli ha consegnato il volo, dal quale non può scappare, però. Nella nuova declinazione di Matteo Branciamore, bramoso di spogliarsi di quella veste di bravo ragazzo che gli aveva affibbiato Marco Cesaroni in gioventù, c’è il trasporto del gestore di night club che deve, per necessità di coerenza narrativa, nascondere una losca ragnatela di contatti e rischiare di perdere un occhio o la faccia.
Enea, però, è anche una danza di storie, di vicende intrecciate, di malumori e di incoscienza, ma soprattutto di rimorsi. Qualcuno potrà dire che quelle di Castellitto finiscono per essere frasi fatte, costrutti sintattici che non lasciano spazio alla novità, ma solo a una critica sociale non riuscita: per sua ammissione, non era quello l’intento.
Enea è un film che fa trasparire la maturità che dopo l’esordio da regista serviva a Castellitto: il verismo già citato prima lo ritroviamo nel desiderio di far quasi confondere il suo personaggio con la sua persona, coinvolgendo la propria famiglia nel momento in cui, alla cena di Natale, si persegue l’aneddoto familiare, corroborato di foto d’epoca appartenenti alla vera famiglia Castellitto. L’esistenzialismo prende il sopravvento nei lunghi primi piani sul volto sempre ordinato ed elegante di Enea, in quella riflessività che lo conduce a un andirivieni di scelte impulsive e poco ragionate, spesso con la testa tra le nuvole, con un solo desiderio: far ridere il prossimo.
Torneranno i baci
Il tutto scandito da una curiosa e affascinante scelta visiva: far sì che il film e gli atti venissero scanditi da dei baci, sempre oscurati, accompagnati da una forte sonorità. Il bacio è protagonista silenzioso della storia, citato nei discorsi dei narcotrafficanti, al centro dei romanzi più in voga, simbolo di legame tra gli interpreti. Anche quelli di cui Castellitto si dimentica di darci contezza e ce li lascia lì con approssimazione e, quasi, malcuranza.
Perché in tutto questo, Enea si perde dei pezzi per strada, soprattutto sul finale: il simbolismo della scena di chiusura è forse eccessivamente artefatto, è figlio di una necessità di separare il filmico, l’irreale, con il reale, tradendo quella ricerca di verismo che si era avuta fino a quel momento. Nel criticare la borghesia, i rimpianti, le vite agiate, le idiosincrasie dei personaggi, è dicotomica l’esigenza di far sapere a tutti, alla fine, che si trattava di una messinscena.
In chiusura, tralasciando una fotografia molto ordinaria che si esalta solo nelle rappresentazioni anni ’70 della discoteca gestita da Gabriel, Enea riesce in un qualcosa che ci si aspettava da Castellitto: l’uso del linguaggio. La modernità della pellicola passa da alcune espressioni colorite, mai metaforiche, e tipiche della generazione dei trentenni di cui fa parte il regista, che individua il proprio registro e lo coniuga in tutti i personaggi, così da sottolineare ancora di più quella contrapposizione tra l’eleganza della borghesia e la favella che emerge dalla bocca.
Il tutto è colloquiale, è immediato, è veloce: strappa risate allo spettatore, che viene investito con un frontale dall’uso lessicale che fa Enea in quanto personaggio. Non si cerca di essere aulici, né di voler abbracciare un qualcosa che non ci appartiene più e che dovrebbe accontentare solo una piccola e sparuta parte di conservatori.
Fonte : Everyeye