Conseguenze legali, sull’attività di Chiara Ferragni, sull’attività dei colleghi della più popolare fra le influencer: a quasi un mese dal divampare dello scandalo del pandoro Balocco, sono sostanzialmente 3 i fronti su cui potrebbero esserci ricadute.
Di seguito li vediamo nel dettaglio in ordine di crescente importanza e anche portata di quello che potrebbero eventualmente provocare. Per farlo, ci siamo fatti aiutare da DeRev, società specializzata in strategia e comunicazione digitale, e dai rappresentanti dell’AiCdc, che può essere considerato il primo sindacato degli influencer italiani.
L’inchiesta: che cosa rischia Chiara Ferragni?
Intanto, la questione legale: Chiara Ferragni, insieme con Alessandra Balocco e (presumibilmente) Franco Cannillo di Dolci Preziosi, è indagata per truffa aggravata. Questo è il punto più debole della vicenda: la truffa si ritiene aggravata non per la portata, il numero di persone coinvolte o il valore dei beni, in un 2-3 casi ben precisi. Per esempio, la truffa è aggravata se condotta nei confronti dello Stato (quando il servizio militare era obbligatorio, se si agiva illegalmente per evitarlo si era accusati di truffa aggravata) o nel caso in cui la vittima o le vittime siano in stato di minorata difesa.
Questa è la strada percorsa dalla Procura di Milano nel caso Ferragni: l’ipotesi è che il potere mediatico di lei sia talmente grande da mettere i suoi follower in una sorta di stato di soggezione, che appunto li avrebbe resi incapaci di difendersi e quindi opporsi al suo invito a comprare il pandoro oggetto del contendere. È utile ricordare che lo stato di minorata difesa viene evocato soprattutto quando si parla di truffe online: chi viene raggirato, raramente è in grado di risalire all’identità del truffatore e quindi non ha effettivamente armi per difendersi e fare valere i suoi diritti. È però onestamente difficile fare passare l’idea che gli acquirenti del pandoro non conoscessero l’identità di Chiara Ferragni o anche di Balocco, entrambi marchi parecchio noti e conosciuti. Dal punto di vista della giurisprudenza, l’interpretazione più diffusa al momento è che il quadro accusatorio messo in piedi dalla Procura di Milano non si dimostrerà abbastanza solido in tribunale e c’è il forte sospetto che questo capo di accusa sia stato scelto perché è l’unico in questo ambito che permette di procedere d’ufficio, dunque senza la querela di qualcuno. Senza, l’indagine nemmeno si sarebbe potuta aprire.
Sarà ovviamente un eventuale processo a stabilire da che parte sta la ragione: nel caso in cui venissero davvero riconosciuti colpevoli di truffa aggravata, gli indagati rischiano una sanzione da 309 a 1549 euro e da 1 a 5 anni di carcere.
Follower in calo: gli effetti del pandoro su Chiara Ferragni
Da quel che si capisce, Ferragni avrebbe insomma le spalle abbastanza coperte dal punto di vista legale, ma comunque le cose per lei non stanno andando benissimo: sono le conseguenze sulla sua immagine di cui si diceva all’inizio.
Questo nonostante che sinora si sia mossa oggettivamente bene sui social: ormai da quasi un mese, niente post su Instagram ma solo Storie, che hanno il vantaggio di non rimanere e dunque di non lasciare tracce visibili. Di più: le Storie si possono commentare ma solo chi le pubblica può leggere quello che viene scritto; in questo modo, Ferragni e il suo staff possono rendersi conto del cosiddetto sentiment delle persone nei loro confronti ma al riparo da occhi indiscreti.
Sentiment che, a giudicare dai numeri, non pare positivo: come si vede dal grafico preparato dagli analisti di DeRev, i follower su Instagram sono scesi di quasi 235mila unità dal 13 dicembre a oggi. È meno dello 0,8% di quella che era la sua community, che a metà dicembre sfiorava i 30 milioni di follower, ma è comunque un numero importante. Anche perché si tratta di quasi 235mila singoli individui che hanno scelto consapevolmente di accedere alla pagina di Chiara Ferragni solo per fare unfollow.
Per lei è il primo calo del genere dal 2015, e fra l’altro lei stessa non sembra in grado di arrestarlo: nel dettaglio, i follower sono scesi di oltre 168mila unità fra il 18 dicembre e il 3 gennaio (rispettivamente il giorno del suo video di scuse e quello del suo ritorno sui social) e poi ancora di quasi 50mila unità dal 3 gennaio in avanti.
instagram: il video di scuse di Chiara Ferragni
Il pandoro Balocco e il mondo dell’influencer marketing
Sul punto, la domanda che si fanno tutti al momento è una sola. Anzi, sono due ma sono in qualche modo collegate: questa è la fine per Chiara Ferragni? Ed è la fine per il mondo degli influencer? Le risposte brevi sono probabilmente no e sicuramente no.
Gli addetti ai lavori già si interrogano su chi potrebbe prendere il posto di Ferragni, fra Elisa Maino, Martina Strazzer (che abbiamo intervistato di recente) e Alessia Lanza, mentre lei condisce le Storie di espressioni in inglese, quasi a volersi rivolgere a quel pubblico internazionale che le ha permesso di arrivare dov’è ben prima che la sua Italia si accorgesse di lei, viene onestamente difficile immaginare i social senza Chiara Ferragni.
Ancora più difficile è immaginare queste piattaforme senza influencer e creator che hanno contribuito a rafforzarne successo e diffusione: da DeRev ci hanno confermato che “non prevediamo una contrazione degli investimenti provocata da una sfiducia complessiva di aziende e brand verso il cosiddetto influencer marketing”. Perché? “Sia perché il caso Ferragni è un caso isolato sia perché è una vicenda che nulla ha a che vedere con i social media o con l’efficacia di un’attività promozionale condotta così”. Paradossalmente, “non siamo di fronte a una situazione in cui un’influencer ha fallito nell’obiettivo della collaborazione, cioè la promozione o la vendita del prodotto. È anzi tutto il contrario”.
In estrema sintesi, “non c’è proprio alcuna attinenza con la leva tecnica dell’influencer marketing, e al momento il punto di vista delle aziende è esattamente questo”. Aziende che però una lezione dovrebbero averla imparata: “Nel rapporto con l’influencer, è più che corretto che l’ultima parola spetti al brand e non al creator. Sia per questioni di know-how sia per avere maggiore controllo sull’attività promozionale”.
Un’altra cosa che cambierà, e che in effetti stava già cambiando, è il tipo di influencer cui d’ora in avanti le aziende si rivolgeranno: “Alcuni di loro soprattutto i cosiddetti Mega e Celebrity (qui il dettaglio della classificazione, ndr) oggi somigliano sempre di più ai classici testimonial della pubblicità tradizionale, parlando a pubblici molto vasti e indistinti perchè generalisti – ci ha fatto notare Roberto Esposito, CEO di DeRev – E però, sempre più spesso si è resa evidente la maggiore efficacia dei più piccoli, che hanno un pubblico più profilato e permettono ai brand di intercettare un target più raffinato e dunque più interessante”. Ancora: “Se guardiamo a questo trend attraverso la lente Ferragni, crediamo che si accentuerà perché unirà un secondo beneficio – ci ha detto ancora Esposito – cioè quello di poter lavorare con creator che vantano un’autorevolezza di merito e una fiducia da parte della community fondata sui contenuti che producono, e non sulla fama. Con l’ulteriore aspetto positivo di non essere così esposti da rischiare crisi reputazionali in grado di investire chiunque lavori con loro”.
In estrema sintesi, gli influencer sono qui per restare. Anche perché fanno girare davvero un mucchio di soldi: solo in Italia, il cosiddetto influencer marketing dà lavoro a poco meno di 500mila persone e ha un valore stimato di circa 350 milioni di euro (quasi 17 miliardi nel mondo), in crescita costante e in doppia cifra da almeno 3 anni. Da DeRev ce l’hanno detto chiaramente: “Riteniamo che i budget dedicati all’influencer marketing non caleranno, ma saranno probabilmente ripartiti tra più creator minori invece di essere destinati a grandi operazioni con un singolo influencer. Da questo punto di vista, le ripercussioni del caso Ferragni potrebbero forse registrarsi al livello dei suoi pari (le già citate Maino, Strazzer e Lanza, ndr) e la sfiducia potrebbe estendersi alla lora categoria, ma è presto per avere conferme di questo”.
Le nuove regole: anche Meloni è un’influencer?
Gli influencer sono qui per restare, ma dovranno farlo in modo diverso e con nuove regole: l’Autorità garante per le Comunicazioni le sta già immaginando (qui c’è la prima bozza) ma definirle con precisione non sarà facile. Sia perché sarà necessario un forte coinvolgimento dei protagonisti sia perché chi è chiamato a stabilirle non sembra purtroppo granché ferrato sul tema.
Mauri Valente, vicepresidente dell’AiCdc (che fra le sue fila raccoglie nomi grossi come Khaby Lame, Luca Campolunghi, Giulia Latini e Samara Tramontana), ha ricordato che “influencer e creator non possono essere considerati editori”, perché “non possiedono né hanno facoltà decisionale sui social all’interno dei quali operano”. E dunque “chiediamo di coinvolgere tutte le piattaforme e tutti gli attori e di valutare le metriche che delimitano il perimetro dei professionisti inclusi”, soprattutto perché “ogni social network ha regole differenti”.
Che è un punto su cui si sono detti d’accordo anche quelli di DeRev: “A oggi, le linee guida assimilano l’una all’altra tutte le piattaforme, che però hanno peculiarità specifiche che incidono sull’attività degli influencer e anche sui parametri che li definiscono”. Per esempio, il numero di follower non ha lo stesso valore su tutti i social e nemmeno la stessa forza: “La capacità specifica di penetrazione e di influenza sul pubblico di YouTube è molto diversa da quella di Facebook”. Allo stesso modo, ”l’engagement è un dato enormemente variabile in base alla piattaforma, che lo rende non confrontabile e dunque fa sì che la soglia di monitoraggio non possa essere uguale per tutti”.
Sull’engagement, cioè il tasso di coinvolgimento delle persone, vale la pena spendere qualche parola in più: intanto, come ci hanno fatto notare da DeRev, “la comunicazione dell’AgCom (che si trova qui, ndr) non precisa un dettaglio fondamentale: parla di engagement medio ma senza dare un riferimento temporale, se sia cioè sia su base annua, mensile o altro”. Che è una cosa che ovviamente fa molta differenza. Più preoccupante il fatto che la definizione di engagement data dall’Authority sia completamente sbagliata: si parla di “engagement rate medio pari o superiore al 2% (ossia, che hanno suscitato reazioni da parte degli utenti, tramite commenti o like, in almeno il 2% dei contenuti pubblicati)” però l’engagement non è questo. Il tasso di coinvolgimento, come da definizione originaria di Facebook e come sanno più o meno tutti quelli che lavorano in questo settore, “indica il numero di reazioni e interazioni generate da parte degli utenti (incluse le condivisioni, oltre a like e commenti) in rapporto al numero di follower, per ciascun giorno”.
Anche il buon senso avrebbe potuto aiutare a capire il madornale errore: un influencer che ha reazioni solo in 2 post ogni 100, forse dovrebbe cambiare lavoro.
Detto questo, ci sono altre cose migliorabili: “Sarebbe utile avere una lista delle piattaforme considerate dalla normativa, per capire se sono incluse anche Twitch, OnlyFans e BeReal o soltanto le maggiori e più popolari, come Facebook, Instagram e TikTok”. ha sottolineato Esposito. Inoltre, la definizione di influencer solo sulla base di due criteri quantitativi, cioè numero di follower ed engagement (errato, ma tantè), presta il fianco ad alcune storture: “Volendo estremizzare, dovremmo considerare un’influencer anche Giorgia Meloni e domandarle di osservare le stesse regole – ci ha detto Esposito con un sorriso – Sarebbe opportuna una definizione ampia, che consideri anche criteri qualitativi”.
Detto questo, tutte le realtà del settore sembrano assolutamente d’accordo con la necessità di avere paletti precisi entro cui operare: “Come operatori del mercato, concordiamo assolutamente con l’opportunità di regolare l’attività degli influencer, se non altro perché i social sono a tutti gli effetti un mass media contemporaneo al pari dei tradizionali, e alcuni protagonisti riescono a parlare a platee molto vaste – ci hanno detto in conclusione da DeRev – Guardiamo però a queste linee guida come un primo passo, confidando che vengano declinate ulteriormente con precisione e un perimetro di applicabilità chiara”. E anche magari senza sbagliare le definizioni dei parametri, aggiungiamo noi.
Fonte : Repubblica