Volete lo svincolo ciclostradale a quadrifoglio?

Chi abita in tante periferie delle nostre città conosce abbastanza bene, per esperienza tattile diretta, la psicogeografia dello svincolo autostradale, anche senza aver letto London Orbital di Iain Sinclair o quella sua cover italiana Tangenziali, di Gianni Biondillo e Michele Monina, né visto il premiatissimo film Sacro GRA di Gianfranco Rosi, peraltro premiato da una giuria del tutto ignara del concetto psicogeografico sotteso. Che in quanto metodo per determinare le forme decostruzione di una zona urbano-metropolitana fa vedere abbastanza chiaramente almeno la netta invalicabile separazione tra i due universi di spazio e spazio-flusso, dei ritagli di città più o meno casualmente inclusi nello svincolo stesso, e quel piatto di spaghetti corsie di rallentamento, ancora organo autostradale per quanto di interfaccia col resto del mondo. Là dove comincia il mondo finisce lo svincolo, anche se viceversa dove finisce il mondo non comincia assolutamente nulla salvo il muro del flusso in senso inverso. Insomma le due entità comunicano pochissimo, male, e proprio perché sono pensate così: l’autostrada con la città-territorio può solo sovrapporsi, sostituirsi, non certo rapportarsi, relazionarsi. Come benissimo ci raccontano le opere citate sopra.

Perché quella pista veloce originariamente concepita dall’ingegnere futurista Piero Puricelli come allungamento del Circuito di Monza verso il resto del territorio, i laghi lombardi prima e il mondo poi, basta e avanza a sé stessa, può solo riprodursi e divorarlo, il resto. Basta guardare cos’è successo ovunque si è pensato follemente di progettare e costruire «autostrade urbane», prolungando fra i quartieri o dentro di essi le aste che sino a quel punto collegavano la periferia di una città all’altra. E poi la medesima logica, non contenti, è stata allargata anche alle «arterie di scorrimento veloce» che gli svincoli manco ce li hanno, in senso proprio, accontentandosi di qualche cavalcavia o rotatoria, e dulcis in fundo pensando di applicare la identica folle logica alle piste ciclabili (che non a caso ai tempi in cui era Mayor of London, Boris Johnson chiamava «autostrade ciclabili»). E trasformando gli esseri umani in una versione di massa dell’omino di Charlie Chaplin risucchiato tra gli ingranaggi della macchina, che nulla c’entra col resto del mondo. Questa la logica sottesa all’idea, ispiratrice di leggi e norme, della cosiddetta Pista Ciclabile in Sede Propria Riservata Delimitata con Cordolo».

La lunga e magari un po’ noiosa dissertazione che ci ha portato fin qui serviva in sostanza a introdurre una delle piste di indagine della magistratura sul caso dell’incidente mortale di una ciclista, investita da un mezzo pesante in curva a Milano, pieno centro città, dove una «ciclabile a segnaletica orizzontale» sulla Cerchia dei Navigli incrociava la radiale di Porta Vittoria, sull’angolo di ingresso della Biblioteca Comunale. La magistratura vuole capire dal suo punto di vista se esistano delle responsabilità quanto a «mancati dispositivi di sicurezza» e guarda caso seguendo proprio la filiera leggi-norme-accettato senso comune inciampa nella medesima devianza autostradale, chiedendosi se lì un amministratore attento all’incolumità dei cittadini non avrebbe dovuto realizzare una vera pista ciclabile anziché quella sua sembianza assai imperfetta. E la vera pista ciclabile sarebbe, guarda un po’, l’imitazione dell’autostrada urbana punto su punto: percorso riservato protetto da cordoli con incroci regolati, flussi separati, barriere, accessi limitati … Mille miglia dall’altro dispositivo provatamente assai sicuro che, secondo la scuola degli Spazi Condivisi marcatamente urbana e anti-autostradale, garantisce non solo incolumità, ma ottima interazione e sinergia, mescolando i flussi e gli spazi anziché psico-geograficamente segregarli.

La Città Conquistatrice – Autostrade urbane

Fonte : Today