Il finanziamento pubblico ai partiti è tra gli argomenti più impopolari per eccellenza, forse secondo solo alle fette di ananas sulla pizza Margherita e al cappuccino servito a pranzo dai ristoranti delle città d’arte ai turisti stranieri; ma quelli sono oggettivamente dei crimini contro l’umanità.
È una storia che ha radici antiche e segue il progressivo allontanamento tra popolo e istituzioni, un allontanamento figlio della fine delle grandi ideologie e che posa le sue radici nel terreno arido lasciato dalle inchieste giudiziarie che negli anni novanta stravolsero la politica italiana, mettendo fine ai grandi partiti di massa e con loro alla Prima Repubblica.
Da Pannella a Grillo
Qualcuno ricorderà Marco Pannella, che nell’agosto del 1997 distribuiva banconote da 50 mila lire a piazza del Campidoglio parlando di “restituzione del bottino”: era da poco iniziata l’era berlusconiana, quella del grande imprenditore “sceso in campo” per dare il colpo di grazia alla “partitocrazia”, l’uomo del fare che avrebbe mandato in pensione i cosiddetti “politici di professione”, che secondo il volgo non fanno nulla dalla mattina alla sera e vivono sulle spalle degli onesti cittadini. Un’onestà tutta da dimostrare, visto che lo stesso popolo che disprezzava e disprezza i politici è quello che ci rende il Paese che primeggia in Europa nell’umiliante classifica sull’evasione fiscale.
La risposta a quel “populismo del fare” arrivò qualche anno dopo con il populismo del “far ridere” del comico Beppe Grillo: il Movimento 5 Stelle porta nel Palazzo i cosiddetti cittadini comuni, ma i risultati non sono esaltanti. Guardando i Luigi Di Maio, le Paola Taverna e i Danilo Toninelli, qualcuno comincia a sospettare che quei “politici di professione”, così brutti e cattivi, forse forse a qualcosa servissero; ma ormai c’è ben poco da fare: i politici purosangue sono praticamente estinti.
I danni del populismo
La cosiddetta “antipolitica”, trasversale a un po’ tutti gli schieramenti, ha portato al progressivo azzeramento dei finanziamenti pubblici ai partiti, soldi che lo Stato sborsava per mantenere quelle strutture che servivano proprio a formare le classi dirigenti e mantenevano quei soggetti, definiti dall’articolo 49 della Costituzione, che hanno il delicato compito di rappresentare le istanze dei cittadini in tutti i livelli decisionali. Le due azioni principali che hanno segnato la fine del sostegno economico ai partiti sono state il referendum del 1993 promosso dai Radicali, che eliminò il finanziamento ai gruppi parlamentari e il decreto legge sulla soppressione dei rimborsi elettorali approvato dal governo Letta, un provvedimento varato per cercare di arginare la prepotente ascesa dei grillini, che sulla lotta alla cosiddetta “casta” fondavano buona parte del loro consenso. Da allora l’unico finanziamento che i partiti ricevono è il due per mille che i cittadini possono scegliere di indicare sulla loro dichiarazione dei redditi, praticamente pochi spiccioli. Negli anni, l’impoverimento dei partiti politici ha prodotto due effetti: il drammatico abbassamento del livello dei politici e la lottizzazione degli stessi partiti da parte di piccoli, medi e grandi finanziatori.
Quali sono i partiti che incassano di più dal 2 per mille
I partiti “privatizzati”
I due fenomeni sono molto legati tra loro, perché i finanziatori sono presto diventati sponsor di singoli e di gruppi, generando una sorta di “privatizzazione” degli stessi partiti. E se Forza Italia e il Movimento 5 Stelle erano già alla nascita due partiti-azienda, il primo “figlio” del secondo gruppo industriale italiano, il secondo appendice della Casaleggio Associati, le altre forze politiche hanno dovuto trovare nuove strade per pagare le sedi, le bollette e i pochi dipendenti sopravvissuti. Intorno a loro sono nate associazioni e ricche fondazioni come Open, quella che ha finanziato la Leopolda di Matteo Renzi fino al 2020. Negli anni in cui Renzi era segretario del Partito Democratico, molti facevano notare il paradosso di un partito sull’orlo della bancarotta, con decine di dipendenti in cassa integrazione e un segretario con grandi disponibilità economiche.
I partiti “privatizzati” hanno iniziato a selezionare la quasi totalità dei loro candidati non più in base a un percorso di formazione interna, quella gavetta che fino agli anni novanta aveva accompagnato la crescita di giovani quadri come la stessa Giorgia Meloni, ma rispetto alla “dote” di liquidità e di sponsor che gli aspiranti candidati e le loro correnti potevano garantire. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: i due rami del Parlamento sono popolati da personaggi a cui non si affiderebbe neanche l’amministrazione di un condominio e gli eletti in grado di svolgere la loro funzione in maniera degna sono ormai una minoranza. E non è un caso che qualcuno abbia timidamente proposto un ritorno al finanziamento pubblico ai partiti.
A farlo, qualche mese fa, era stato proprio un esponente del Movimento 5 Stelle, il capogruppo al Senato, Stefano Patuanelli. L’ex ministro dei governi Conte e Draghi, aveva ipotizzato “modalità diverse di finanziare i partiti” che avessero impedito le “distorsioni del passato”. Era poi arrivata, a stretto giro, la “scomunica” di Guiseppe Conte, che liquidò quelle parole come “opinioni personali”. In realtà, al netto di quelle “distorsioni del passato” che potrebbero essere evitate scrivendo una buona legge, tornare a sostenere economicamente i partiti dovrebbe essere una priorità. La politica, per essere fatta come si deve, deve essere il più possibile indipendente dagli interessi economici. La politica, malgrado quello che possa pensare chi di politica non capisce nulla, non è una missione o qualcosa che si fa per una sorta di vocazione religiosa: è un lavoro difficile che richiede anni di formazione. Avere dei partiti poveri e in mano alle lobby economiche vuol dire consegnare al mercato e a pochi ricchi il sistema Paese; vuol dire accettare un’offerta politica sempre più scadente e sempre più inadeguata; vuol dire soccombere a fenomeni come corruzione e voto di scambio, che in molte realtà sono ormai diventati strumenti di “selezione” dei candidati; vuol dire, in sostanza, avere una democrazia più povera.
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Fonte : Today