Questa è una storia piena di storie. Pallavolista di giorno, studioso di notte. Una prima fase della vita passata tra schiacciate in campo e libri, ricerca e scienza. E alla fine a vincere è la scienza. Lui si chiama Leonardo Morsut, classe 1980, 1metro e 99 di altezza, due lauree. Una in biotecnologie mediche, l’altra in matematica. Pallavolista di fama, ruolo schiacciatore, un campione. Una delle più grandi promesse del volley italiano. A un certo punto della sua vita molla tutto per entrare in un laboratorio a fare ricerca. La sua missione: capire come da una cellula nasce un embrione e come si crea la vita. Per poterla ingegnerizzare. Oggi è Assistant Professor nel dipartimento di Stem Cell and Regenerative Medicine alla University of Southern California (USC) di Los Angeles, ed è considerato il genio delle staminali. Nel suo laboratorio costruisce organoidi, ossia repliche di organi e tessuti umani che potranno essere usati per la medicina personalizzata.
Mamma ragioniera, papà insegnante di italiano, un cugino che muore a 15 anni per una malattia genetica. «A posteriori ho capito che quella vicenda ha influenzato la mia scelta di studiare la genetica e capire i suoi meccanismi». A soli 18 anni Leonardo già gioca in serie A, prima nel Padova, poi a Trento. Fa la World League, si prepara alle Olimpiadi. «Questa è la traccia con cui ti posso raccontare la mia vita fino a quel punto. Ma in parallelo c’è un’altra storia: io da sempre volevo fare lo scienziato. Non ricordo una parte della mia vita senza questo sogno». Così a 25 anni all’apice della sua carriera di campione, decide di lasciare tutto e accetta una riduzione dei suoi compensi di 10 volte, per fare ricerca in un laboratorio universitario a 800 euro al mese. Piero Angela rimane colpito da questa straordinaria storia e lo chiama a SuperQuark.
«Giocare era il mio lavoro, mi allenavo due volte al giorno, guadagnavo tanto, ma il mio sogno era altrove. Quando sono arrivato nel Trentino Volley, dove ho passato un anno ad altissimo livello, dentro di me sentivo che stavo perdendo tempo. Avevo due vite separate e dovevo sempre lottare per far quadrare tutto».
Leonardo a 25 anni torna in Università a Padova per un dottorato in biologia dello sviluppo, che è lo studio di come da una singola cellula nasce un embrione. Intanto si iscrive a una seconda laurea: Matematica. «Ho fatto il dottorato in un laboratorio di eccellenza, con un team spaziale, abbiamo fatto un lavoro di ricerca che poi è stato citato più di 5mila volte. Però capivo che il livello di comprensione che avevamo di questi meccanismi era ancora limitato. Mi sono chiesto: e se facessimo dei modelli matematici per capirne di piu?».
Finito il dottorato e la seconda laurea si appassiona sempre più alla Biologia dei Sistemi, ossia all’analisi computazionale e matematica dei sistemi complessi che sottostanno allo sviluppo. E in particolare a una disciplina sorella, la cosiddetta Synthetic Biology: biologia sintetica. «È stato amore a prima vista: è una disciplina che punta a capire il sistema biologico talmente bene da poterlo ingegnerizzare e controllare in maniera predittiva»
Grazie al lavoro fatto a Padova, finisce in uno dei massimi laboratori di Biologia sintetica al mondo, a San Francisco. Qui brevetta con il collega Kole Roybal un recettore sintetico. «Si chiama Syn-Notch. Potente, semplice, ispirato da un recettore naturale, con moltissime applicazioni, soprattutto nelle nuove terapie cellulari antitumorali, che usano cellule del paziente, le ingegnerizzano con un recettore sintetico, per uccidere la cellula tumorale».
Il collega deciderà di creare una startup. «Per me allora significava vendere l’anima al diavolo». Lui punta a diventare professore: fa application, lo prendono, gli danno due milioni di dollari per creare un laboratorio, assumere persone e fare ricerca. «Nel mio laboratorio uso questa tecnologia per capire meglio come le cellule si organizzano quando danno origine a un tessuto o a un organo e come usare le cellule staminali per creare organoidi»
E come si organizzano? «In questi anni abbiamo capito che le cellule fanno un lavoro di gruppo: si parlano tra di loro per decidere chi fa la testa, chi fa il cuore, chi fa la destra, chi fa la sinistra. Il modo in cui si parlano è determinato da un sistema di segnali e i recettori. Io ti mando un segnale, tu lo ricevi con un recettore sulla tua membrana. Come succede in un gruppo di lavoro, dove 6-7 persone si trovano, si parlano tra di loro e si dividono i compiti: così succede con le cellule»
Sapere questo a cosa può servire? «Lo sviluppo embrionale è come una tecnologia con cui costruire organi e tessuti. Questa tecnologia è stata “inventata” da Madre Natura che ha passato milioni di anni a fare prove, errori e selezioni e ha trovato un modo per scrivere un codice genetico che costruisce un organismo funzionante. Noi abbiamo la possibilità di imparare come scrivere un codice genetico con cui costruire un organo, possiamo farlo come vogliamo o rimpiazzare quello che c’è già. Oppure possiamo creare modelli di fegati di pazienti malati per testare farmaci personalizzati in laboratorio. Fantascienza? Quando io ero all’università fare gli organoidi in laboratorio era fantascienza, ora non lo è piu…».
Cosa ha fatto la differenza per te? «Una botta di culo, si può dire? Essere nel posto giusto al momento giusto. Avere fiuto. A Padova, mi sono accodato a un progetto perché mi sembrava figo e solo dopo anni abbiamo visto il suo impatto. E poi, nel post dottorato, ho scelto la biologia sintetica, un campo nuovo su cui tutti mi mettevano in guardia, – non si sa niente, mi dicevano: è uno shot in the dark- e invece mi sono trovato a San Francisco, in un laboratorio incredibile. Il posto giusto, nel momento giusto. Una tempesta perfetta. Così ci siamo inventati questo recettore sintetico che ha grandissime applicazioni»
Cosa insegna la tua storia? «È insolito che un pallavolista vada a fare il dottorato. O che un biologo dello sviluppo si occupi di biologia sintetica. Però io sentivo che era l’unica cosa da fare. Avevo la netta sensazione che fosse importante. Ecco, se sentite che c’è qualcosa che volete fare, anche se non è la cosa più ovvia o che gli altri vi consigliano di fare, fatela lo stesso. In questa strategia è importante trovare qualcuno che vi avvalli. Io sono andato a cercarmi una sorta di nicchia tecnica. Persone con cui confrontarmi. A chi mi rispondeva: “Tu sei matto”, io dicevo ok allora con te non parlo piu. Chi era più aperto ad ascoltarmi e mi diceva: ‘Bella idea, come pensi di farlo?’, diventava la persona con cui mi confrontavo».
Da 10 anni, Leonardo vive in America, prima a San Francisco ora a Los Angeles: ha una moglie italiana, Sabina, che è un’ umanista, lavora all’Huntington Art Museum. E dirige un progetto di realtà virtuale incentrato sui manoscritti medievali a USC. Hanno due figli, di 10 e 6 anni, con doppia cittadinanza. Dieci anni dopo le prime interviste, Leonardo ancora una volta sta vivendo due vite parallele. Il prossimo anno farà domanda per avere una nuova cattedra. Ma per la prima volta, se non vincerà e non riuscirà a realizzare il suo sogno, questo non cambierà nulla. Ha iniziato un percorso di crescita interiore.
«Ho vissuto un periodo di crisi molto buio nella mia vita. Che è stata sempre caratterizzata dalla competitività. Per me non era ammissibile arrivare secondo. Il mio valore e la mia autostima dipendevano esclusivamente dalle mie vittorie. Se perdevo, mi sentivo vuoto. Invece non è così. Ma l’ho scoperto dopo anni di terapia, meditazione e yoga. Mi hanno aperto un mondo completamente sconosciuto, che è il mondo di come parlare della tua vita interiore. Ho sempre avuto una vita interiore ma avevo grossi problemi a relazionarmici. Ho capito che il nostro valore dipende solo dal fatto di essere vivi e di esistere. Certo possiamo fare delle cose belle con i nostri talenti, cose semplici o cose complicate, ma quello che è veramente speciale è essere vivi e avere le percezioni di questo universo. Per questo dico che non importa se prendo la cattedra o se non la prendo: la mia autostima, il mio valore non si modificherà di una virgola. È un cambio di paradigma completo. Che mi dà molta serenità. Nella mia vita, c’è un prima e un dopo questo atteggiamento mentale. Molti settori della società moderna, incluso il mondo della scienza, mi sembrano lontani da questa consapevolezza, anche se vedo segnali di cambiamento in una buona direzione. Una lezione che ho imparato? Essere gentili verso se stessi è primo passo per la felicità».
Fonte : Repubblica