Il ritorno di Isco: perché “El Magìa” ci è mancato così tanto

Il soprannome, o “nick” che dir si voglia, è qualcosa che spesso rimane appiccicato per sempre. Alcuni se lo sono trovati autonomamente, altri se lo portano dietro come eredità di un periodo precedente della vita ed affibbiato da amici, familiari, o vecchi allenatori traendo spunto dalle cose più disparate (il luogo di nascita, un difetto, una somiglianza fisica o tecnica fino a un episodio che lo ha visto protagonista in positivo o in negativo). Ma se qualcuno per te al Real Madrid ha scelto “El Magìa”, ed i qualcuno in questione sono Casillas e Sergio Ramos, ed è così che vieni chiamato da gente che corrisponde al nome di Cristiano Ronaldo, Bale, Modric, Kroos e Casemiro dentro uno spogliatoio che possiede la sacralità di un tempio, il passaggio da soprannome a titolo nobiliare è di quelli brevi.

Non è un’esagerazione. Francisco Román Alarcón Suárez, che tutti conoscono come Isco, aveva indubbiamente un qualcosa di sovrannaturale. E’ il primo acquisto dei “blancos” dell’era Ancelotti I°, prelevato nell’estate 2013 dal Malaga, e lascia ripetutamente la sua firma nella sfilza di trionfi (ben 14, tra cui quattro Champions) del quinquennio che lo vede tra i protagonisti assoluti dei galacticos. Anche la nazionale lo precetta, e si prende anche la soddisfazione di una tripletta nel 2018 contro l’Argentina in amichevole, a certificare uno stato di grazia, a segnare un lustro disseminato di ordinaria magia. Eppure, quella bacchetta capace di dispensare prodigi d’un tratto si mette a roteare a vuoto. Come un giocattolo che si rompe, o semplicemente non è troppo gradito a chi ora siede sulla panchina: un soprannome sarà anche per sempre, 42 gol e 51 assist in cinque stagioni anche, ma il minutaggio e la considerazione cominciano a calare, complici anche alcuni acciacchi assortiti disseminati qua e là nel suo sesto anno a Madrid.

E’ forse questo il periodo più cupo di Isco. Nelle successive tre stagioni il suo nome finisce per essere accostato molto più a movimenti di mercato che non nel tabellino delle gare: poco più di 2500 minuti in campo, sempre più raramente nell’undici di partenza, e nessuna risposta convincente su come “El Magìa” sia potuto finire ai margini, essere bollato come sacrificabile se non addirittura inutile, sul motivo di quel malessere che sembra dipinto sul suo sguardo, che nemmeno il trasferimento lampo al Siviglia riesce a cancellare, visto che l’avventura in Andalusia termina dopo appena sei mesi. E di poco attinente al naturale, legato stavolta quasi ad un sortilegio, ora c’è solo il suo rimanere a fare da spettatore, ad appena 30 anni, mentre il calcio continua a scorrergli davanti: abboccamenti con la Serie A, lusinghe dalla Premier, addirittura un contratto solo da firmare per accasarsi in Bundes all’Union Berlino, col trasferimento che però sfuma in dirittura d’arrivo.

Per ritrovare il “tocco” era solo necessario il contesto giusto. Che, anche, qui, non ha niente di banale: la città è quella che lo ha accolto un anno fa, cambiano sponda e colori. E’ Siviglia, ma quella dipinta col biancoverde del Betis. Manuel Pellegrini lo mette a galleggiare sulla trequarti, come ai vecchi tempi, con licenza di inventare: in quattro mesi segna tre gol e confeziona quattro assist, buoni per respingere al mittente ogni perplessità, quelle velate accuse di scarsa professionalità e pure l’etichetta di “bollito”. Perché appiccata addosso c’è sempre quella di “El Magìa”: ai Verderones sono bastate una ventina di partite per fargli autografare il prolungamento fino al 2027. Ai suoi detrattori, forse molto meno per ammettere che l’oblio, per chi come Isco maneggia quella bacchetta speciale capace di generare incantesimi calcistici, può ancora attendere.

Fonte : Today