L’anno che potrebbe avere cambiato l’Europa (ma anche no)

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L’ANNO CHE STA FINENDO

Il 2023 che sta per concludersi potrebbe essere stato un anno storico per l’Unione europea. Ma anche no. Per esempio, potrebbe essere stato l’anno dell’addio al motore a combustione e più in generale all’energia da fonti fossili, oppure quello del congelamento (se non dell’inversione a U) della rivoluzione ‘verde’ del Green deal. Lo stesso vale per i due “patti” siglati in extremis a dicembre: il nuovo Patto su migranti e asilo riuscirà davvero ad affrontare i nodi mai risolti sull’immigrazione e le liti tra i Paesi Ue sull’accoglienza? E la riforma del Patto di stabilità saprà davvero superare la stagione dell’austerity senza se e senza ma, promuovendo bilanci più sani senza comprimere investimenti pubblici e crescita? E poi ancora: il via libera ai negoziati per l’adesione dell’Ucraina sarà la svolta attesa per creare un’Europa ancora più grande (con 35 membri, contro i 27 attuali), oppure Kiev e gli altri saranno lasciati per anni nel limbo in cui si trovano, per esempio, Albania e Macedonia? A queste domande, come è ovvio che sia, risponderanno i posteri. Ma a prescindere dagli esiti, il 2023 è stato un anno intenso per l’Ue. Ecco una carrellata dei principali fatti che lo hanno caratterizzato.    

Dalla crisi del gas a quella mediorientale – Il 2023 era iniziato con un’Europa affannata dalla crisi energetica e dall’inflazione. Se i fantasmi di blackout elettrici e simili sembrano per il momento un lontano ricordo, l’erosione del potere d’acquisto della famiglie continua, seppur a ritmi meno spediti. E questo nonostante il pugno duro della Banca centrale europea, che ha alzato i tassi d’interesse a più riprese, fino a raggiungere il loro livello più alto da quando esiste la moneta unica. Un record che qualcuno pensa potrebbe persino venire battuto nel 2024, e che sta avendo un impatto notevole sui mutui, restringendo il credito alle famiglie e facendo pagare interessi più alti a chi, come l’Italia, ha un elevato debito pubblico. Il tutto mentre allo stallo del conflitto ucraino (che soprattutto in estate si sperava potesse volgere al meglio per Kiev con una trionfale controffensiva) si è aggiunta la guerra tra Israele e Hamas.   

L’avanzata delle destre – Le tensioni geopolitiche hanno fatto il pari con quelle socioeconomiche, e a Bruxelles, dopo il successo di Giorgia Meloni a fine 2022, si pensava che il 2023 sarebbe stato l’anno del trionfo della nuova destra europea, capace di intercettare il malcontento crescente dei ceti medio bassi. Prima le elezioni in Spagna, poi quelle in Polonia, hanno invece ribaltato le attese, confermando il centrosinistra di Pedro Sanchez a Madrid e scalzando dal governo di Varsavia i conservatori de Pis, i principali alleati europei di Meloni. Vero è che in Olanda c’è stato lo storico successo dell’ultradestra di Geert Wilders, ma potrebbe essere una vittoria di Pirro dato che, per il momento, Wilders non sembra in grado di formare un governo.

La fine del Green deal – Di contro, lo spauracchio dell’avanzata delle destre ha avuto l’effetto di influenzare l’agenda “verde” dell’Ue: il 2023 doveva portare a termine pezzi importanti del Green deal, il grande piano per la transizione ecologica dell’Europa. È stato invece l’anno in cui tale piano ha subito una brusca frenata, se non quasi un’inversione a U, per via delle preoccupazioni di Bruxelles e diverse capitali di destabilizzare la società e gli equilibri politici. La fine della auto a benzina e diesel nel 2035 è stata “ammorbidita” con l’apertura agli e-fuel, e soprattutto con una clausola di salvaguardia che potrebbe far slittare la deadline di altri anni. Sulle ristrutturazioni degli edifici, la cosiddetta direttiva Case, si è giunti alla fine a un testo che ha annacquato, e di molto, la spinta alla riconversione green di abitazioni private e uffici.

Il nuovo vento che spira a Bruxelles si è però sentito in particolare sull’agricoltura: la Farm to fork, la strategia-corollario del Green deal per il settore, non è mai decollata, anzi. Lo dimostrano lo stop alla proposta di legge che doveva portare al dimezzamento dei pesticidi, il mezzo stop a quella sul ripristino della natura (che avrebbe dovuto riconvertire larghe fette di allevamenti e campi agricoli in aree verdi protette), e poi ancora il depotenziamento del regolamento sugli imballaggi (che riguardava da vicinissimo la filiera agroalimentare, si pensi alle buste di insalata). Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, è molto probabile che gli obiettivi climatici che l’Ue si è posta per il 2030 non saranno raggiunti. E questo a fronte dell’accordo mondiale raggiunto alla Cop 28 sulla transizione dai combustibili fossili. 

Il Patto sui migranti – In questo contesto si inserisce anche il tema immigrazione. L’accordo, definito “storico” dal governo Meloni e non solo, sul nuovo Patto su migrazione e asilo ha mandato in soffitta il regolamento di Dublino nel nome di una maggiore solidarietà tra gli Stati membri, ma secondo le organizzazioni umanitarie rappresenta il trionfo di chi vuole innalzare muri ai confini, anche a costo di venir meno ai diritti umani e alle convenzioni internazionali. Tale accordo fa il pari con quello con la Tunisia, elevato a modello dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (e dalla premier italiana), ma osteggiato dalla sinistra (e ancora una volta dalle ong umanitarie). 

Elezioni europee – Qualcuno a Bruxelles spera che il nuovo corso su Green deal e quello sui migranti possano evitare brutte sorprese a giugno, quando si apriranno le urne delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, che a loro volta determineranno la nuova Commissione Ue. Per il momento, i sondaggi dicono che l’attuale maggioranza (popolari di centrodestra, liberali e socialdemocratici) dovrebbe confermarsi come l’unica coalizione possibile per governare l’Europa. Ma avrà bisogno di un sostegno esterno: da un lato ci sono i verdi, in netto calo. Dall’altro, ci sono i conservatori di Meloni, che invece sono in crescita. Si vedrà fra poco più di sei mesi cosa accadrà. 

Lotta alla disinformazione – Le elezioni europee saranno anche il banco di prova delle nuove norme che l’Unione europea ha messo in campo proprio nel 2023 per combattere la disinformazione online e più in generale la diffusione di contenuti pericolosi sul web. Negli ultimi mesi, la Commissione Ue ha inviato diverse lettere ai giganti del settore per sollecitare l’adeguamento alle nuove regole. I timori maggiori di Bruxelles si sono concentrati al momento su X, l’ex Twitter oggi in mano al patron di Tesla Elon Musk. Dal suo arrivo alla guida del social, Musk ha smantellato il comparto che si occupava proprio delle fake news, e X è stata accusata di aver fatto poco o nulla per contrastare la disinformazione sulla guerra a Gaza. La paura della Commissione è che lo stesso possa accadere durante la campagna elettorale delle Europee, tanto più viste le presunte mire politiche di Musk, di recente ad Atreju, la convention di Fratelli d’Italia e dei conservatori Ue. Restando sul tema, il 2023 è stato anche l’anno della prima legge al mondo sull’intelligenza artificiale.   

La guerra continua – Come dicevamo in precedenza, l’anno si è chiuso con l’avvio dei negoziati di adesione per l’Ucraina, anche se il via libera è arrivato con una serie di condizioni che potrebbero complicarne il cammino già nei prossimi mesi. Per il presidente Volodymyr Zelensky è comunque stata una boccata d’ossigeno in un momento critico per la sua leadership: la controffensiva non ha raggiunto i risultati sperati, tra i soldati ucraini serpeggia la stanchezza dopo quasi due anni di guerra, e una parte dei vertici militari soffia sul malcontento puntando il dito contro Zelensky (con accuse che potrebbero anche essere intrecciate a precise mire politiche per il post conflitto). Il fatto che gli alleati Ue abbiano rilanciato il sogno dell’integrazione europea è un assist al presidente ucraino. Anche se Zelensky avrebbe gradito anche lo sblocco dei 50 miliardi di euro di aiuti promessi da Bruxelles e congelati dal solito veto del leader ungherese Viktor Orban (il quale, va detto, in questo caso sembra più una foglia di fico che nasconde le ritrosie di altri governi Ue). 

Il leader ucraino ha fatto spola tra Stati Uniti ed Europa cercando di ottenere nuovi aiuti economici in vista del prossimo inverno. La guerra continua, e secondo alcuni esperti la Russia potrebbe trovarsi nei prossimi mesi in una posizione di vantaggio in termini di arsenale e uomini. Se questa supremazia dovesse confermarsi sul campo, l’Ue avrebbe la sua buona parte di colpe: il 2023 doveva essere l’anno del crollo dell’economia russa sotto i colpi delle sanzioni occidentali, in particolare quelle sul petrolio. Ma il crollo, almeno per il momento, non vi è stato e le sanzioni sono state ampiamente aggirate sotto il naso di Bruxelles (che non è apparsa così tanto vigile). Prova ne sia che proprio a fine anno la Commissione ha stilato un nuovo elenco di misure anti-Mosca che per lo più sono mirate a coprire le scappatoie. Si aggiunga la magra figura rimediata dall’industria bellica Ue sul fronte degli aiuti militari: i 27 avevano promesso 1 milione di munizioni a Kiev entro marzo 2024, ma a pochi mesi dalla deadline la soglia resta lontana, mentre la Russia continua a ricevere i rifornimenti dell’Iran e della Corea del Nord.

Cosa fare con la Cina – Il 2023 a Bruxelles è stato anche caratterizzato dal dilemma cinese. L’Ue è apparsa divisa su come rapportarsi a Pechino. Anche se è generalmente condivisa la necessità di riequilibrare i rapporti economici (nei primi 11 mesi di quest’anno la Cina ha esportato merci per 458,5 miliardi di dollari verso l’Ue e ne ha importate per 257,8 miliardi, poco più della metà), non tutti vogliono che questo riequilibrio si trasformi in una guerra (commerciale) con Pechino. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen è tra i fautori del pugno duro, e ha provato a forzare la mano fino a minacciare dazi sulle auto elettriche cinesi, e cercando di chiudere più accordi possibile nell’ambito del Global gateway, una sorta di risposta alla nuova Via della seta cinese. In questo quadro, si è inserita la strategia sulle materie prime critiche, che mira a ridurre la dipendenza da Pechino e a diversificare le fonti di approvvigionamento di minerali fondamentali per il futuro industriale (dai chip alle batterie).

Le mosse di von der Leyen, per funzionare, richiedono tempo. E non è detto che il tempo giochi a vantaggio dell’Ue. Inoltre, negli ultimi tempi Washington e Pechino sembrano voler tentare un riavvicinamento, cosa che ha un po’ spiazzato i fautori del pugno duro. Fatto sta che se il 2023 si era aperto con le minacce nei confronti di Pechino per il suo sostegno alla Russia, l’anno si è chiuso con un summit Ue-Cina dai toni decisamente più concilianti (anche se la visita a Xi Jinping di von der Leyen, accompagnata dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel, non ha portato a granché di concreto). 

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Fonte : Today