Dissacrante, provocatorio, irriverente. Sono gli aggettivi che ci aspettavamo (e speravamo) di affibbiare a Santocielo, ultima fatica di Ficarra e Picone, che già dal concept lasciava intravedere un potenziale sovversivo non indifferente, al di là delle prevedibili (e sterili) polemiche che lo vogliono blasfemo e offensivo nei confronti della religione. Il nuovo film natalizio del duo comico siciliano, che torna protagonista nella commedia diretta da Francesco Amato dopo la fortunata interpretazione ne La Stranezza, riprende il tema del precedente Il primo Natale e rappresenta una natività che stavolta non ha nulla di tradizionale.
Santocielo: una provocazione di facciata
Aristide (Picone) è un angelo che nella gerarchia celeste non occupa una posizione di spicco, sogna una promozione che il Padre Eterno (interpretato da Giovanni Storti) non gli ha ancora concesso. La grande occasione arriva quando, in un ultimo tentativo per la salvezza di un’umanità immorale e guerrafondaia, l’assemblea divina opta per la discesa di un nuovo messia sulla Terra. Ad Aristide, offertosi volontario, l’onore di una nuova Annunciazione che permetterà all’umanità di salvarsi e all’angelo di guadagnarsi il favore di Dio. Tutto va storto quando la missione prende una piega inaspettata e accidentalmente Aristide destina il miracolo del concepimento a un uomo, Nicola (Ficarra), scombinando i piani divini.
In fondo gli ingredienti per provocare ci sono tutti: un Paradiso simile a un Monte Olimpo dallo stile un po’ romanico, romantico e a tratti grecizzante, in cui Dio è negligente e ha perso il suo potere esecutivo in nome di una democrazia angelica, con un curioso (e molto umano) centro di smistamento preghiere a seguire la logica di un fordismo celeste; un protagonista integrato in un contesto religioso e fortemente tradizionalista; un disegno divino che diventa scarabocchio e finisce per causare una natività-bis che non si attiene al canone; un amore frantumato da recuperare e uno impossibile da costruire. Sì, il duo comico siciliano ha in mano gli strumenti necessari per scongiurare il compitino da film natalizio e affrontare tematiche delicate prendendo posizioni coraggiose.
Ma ecco, per dirla con le parole del Sommo Poeta, che anche Ficarra e Picone, data la materia, non si esimono dal citare, “lasciate ogne speranza voi ch’entrate”. Non perché Santocielo sia un inferno creativo che vi tedierà come anime in pena, ma perché ogni aspettativa sulla sua forza critica è malriposta e il duo si tiene a debita distanza dalla possibilità di spingere sull’acceleratore della provocazione.
È forse da sciocchi cercare in un film leggero e, tutto sommato, dalle poche pretese, quota comica delle festività natalizie, un’analisi e una riflessione su certe tematiche attuali che non si limiti all’accenno innocuo, al gettare la pietra del progressismo e nascondere la mano dietro alla comfort zone dello status quo. Ma allora Santocielo cosa vuole fare? Perché graffia ma non penetra? Il film di Ficarra e Picone sgancia la bomba su due formae mentis, su due mondi incompatibili, ma ha la pretesa di tenerli in piedi entrambi e al momento dello scoppio si trova al sicuro, ben riparato in una zona franca.
Insomma, Santocielo si disimpegna e sguscia via quando l’argomento si fa spinoso e ha l’opportunità di incidere, si crea una strada irta di ostacoli su cui è facile inciampare e, alla fine, non li evita proprio “tutti tutti” (come direbbe un simpatico personaggio del film), e incespica: lo fa quando si affaccia sul controverso tema dell’aborto e finisce per incagliarsi in un’improbabile retorica pro-life; quando tratta di divorzio lasciando intendere che una relazione extramatrimoniale è destinata ad essere un fiasco.
Oppure quando si inserisce a forza nel dibattito femminista nel tentativo disperato di unirsi al coro, procurandosi una figura barbina quando rivela una dannosa superficialità (il maschilismo di Nicola viene ripetutamente evidenziato ma mai controbattuto) e un’evidente incoerenza di fondo (in favore della gag l’uomo incinto assume atteggiamenti che lo stereotipo vuole femminili) e smaschera la consapevolezza che in ciò che dice non c’è urgenza e non c’è comprensione, solo una forzata volontà di intercettare il topic del momento. Cade, ancora, quando sceglie un focus problematico su un certo rigore del pensiero cattolico che fa di tutto per sciogliere con risvolti ottimistici nelle intenzioni, ma utopistici nei fatti; non osa nel momento in cui decide di risolvere in un nulla di fatto l’amore “sbagliato” tra Suor Luisa (Maria Chiara Giannetta)e l’angelo Aristide, che non ha il coraggio (perché non glielo infondono) di evolversi oltre la sua stessa contemplazione.
Una comicità ben bilanciata
Insomma, Santocielo preserva e si preserva, riabilita la dottrina nonostante finga di prenderla di mira, ne affievolisce il dogmatismo e inneggia all’apertura e all’amorevolezza diventando rassicurante ma rischiando di scadere nel buonismo. Sceglie di spostare e affidare i sentimenti negativi a una società (laica) che ha paura del diverso e dell’anticonvenzionale, che rende un uomo incinto un caso nazionale e fa presto a puntare il dito e ad attribuirgli i contorni del mostro.
Si riscatta sul lato comico, perché i due possiedono ancora quella preziosa alchimia che li ha sempre contraddistinti e la dinamica che li costringe a una convivenza forzata diverte. Poi gli espedienti che Aristide mette a punto perché tutto fili liscio, un Giovanni Storti negli insospettabili panni di Dio che ruba la scena nei pochi frangenti a disposizione, i vicini ficcanaso e l’allegro paesino di soli anziani dell’entroterra siciliano completano l’opera. Nulla che porti a ridere a crepapelle per una comicità mai trascendentale, sia chiaro, ma tra gag-scivoloni e altre più a fuoco il risultato è una commedia natalizia che strappa più di un sorriso e lo fa anche quando, disgelato il ghiaccio e respinte le acredini di un rapporto rifiutato da Nicola, regala qualche momento di sincera dolcezza, salvandosi in corner sul lato emotivo.
Anche sul versante narrativo qualcosa scricchiola: Santocielo si rilassa troppo nella parte centrale e finisce per costruire una narrazione senza sussulti, che dà l’impressione di essere manchevole di qualche accadimento saliente, che non si preoccupa della verosimiglianza delle reazioni e gestisce qualche situazione sulla carta ingarbugliata con una certa faciloneria (Nicola non pare curarsi della veridicità degli effetti dell’intruglio preparato da Aristide nonostante vi riponga una certa speranza; Aristide, privato dei poteri angelici, mantiene la capacità di accendere e spegnere le luci senza un reale motivo, se non per conferire senso a una scena sul finale). Nulla che non sia perdonabile a una storia che, in fin dei conti, non dichiara mai di volersi prendere sul serio, ma guardando ai precedenti lungometraggi (su tutti Il 7 e l’8 e La matassa) con protagonista il duo siciliano è facile aspettarsi qualcosa in più anche in questi termini.
Insomma, in mezzo ai passi falsi Ficarra e Picone, in fin dei conti, un messaggio inappuntabile lo trovano e lo trasmettono: mai curarsi del parere della gente circa le proprie decisioni, mai vergognarsi della propria condizione. Niente di nuovo, soprattutto in un contesto, quello isolano, in cui il vociare degli invadenti, il gusto per la maldicenza di estranei e conoscenti, è un territorio già ampiamente calpestato sia con finalità comiche che per scopi drammatici.
Ma è l’unico messaggio con cui il duo non può davvero deragliare. Con gli altri, invece, tiene il freno a mano tirato e finisce per non lanciarli o persino rinnegarli, costretto da una strana soggezione, un timore reverenziale nei confronti di un pubblico giudice e auctoritas che i comici lasciano comodo sulla sedia, accontentandosi di rimanere nel limbo, anzi, nell’antinferno di chi non si schiera.
Fonte : Everyeye