Maestro Recensione: Bradley Cooper è un regista maturo, non senza difetti

Maestro: sostantivo maschile singolare. Ma nel mondo ricreato da Bradley Cooper la singolarità per quanto presente – e pressante – lascia spazio a una pluralità di coppia, un binomio di cuori che si uniscono, per poi allontanarsi e battere nuovamente insieme, all’unisono, fino ai deboli colpi finali. Dopo l’anima ribelle e autolesionista di Jackson Maine incontrata nella nostra recensione di A Star is Born, Cooper affonda a piene mani nel grande giacimento aureo di talenti illustri e immortali per riportare sulla scena una personalità tanto complessa, quanto adorata, come quella di Leonard Bernstein.

Da una stella che nasce, a una che è destinata a non morire mai: è una regia più matura e sicura di sé quella di Cooper in Maestro; una sinfonia in formato cinematografico composta con sentimento ed emozione, ma che il regista e interprete affronta con troppe pretese, tanto da renderla a tratti forzata, innaturale, fittizia. Eppure, nello spazio di note imponenti, e inquadrature così maestose nella loro semplicità, Cooper riesce comunque a far trasparire barlumi di un uomo che ha donato la propria vita alla musica, e la musica alla propria vita.

Maestro: dettagli parlanti, inquadrature cantanti

Vive, dunque, negli inframezzi di Maestro un amore incondizionato nei confronti di Leonard Bernstein. Quella che Cooper concepisce è una struttura fondata su una certa venerazione in cui tutto deve perseguire un senso di estrema perfezione, una macchina concepita senza catena di montaggio, ma in maniera artigianale così da renderla unica, curata in ogni dettaglio.

Ogni gesto, sguardo, singolo raccordo di montaggio è pertanto un’associazione simbolica che rimanda direttamente a una data emozione, o profondo stato d’animo; e così, tra le mani di Cooper, perfino la prossemica si fa porta aperta su anime sempre più divise e serrate dal lucchetto delle menzogne. Quei corpi così liberi, sinuosi, che si muovevano eleganti sulle note di un amore travolgente, ora sono immobili a braccia incrociate, statue decorative di un sentimento passato che si lascia passivamente ammirare come un museo dei sentimenti asciugatisi, ma mai dimenticati.

Arte che imita l’arte

Quella di Cooper è una macchina da presa dotata di vita propria; un personaggio a sé stante che danza, vive, respira e si modella sulla scia di quelle esistenze che immortala e riflette. Come ogni essere umano, anche la sua regia cambia con lo scorrere del tempo; una crescita improntata non sugli anni che passano, ma sui generi cinematografici affrontati e musicati dallo stesso Bernstein.

E così, nel pieno della gioventù, la nascita dell’amore tra Leonard e Felicia (Carey Mulligan) si veste degli stessi abiti iconici che rivestono il mondo dei musical: il montaggio dinamico, gli zoom, i cambi di scena, la musica predominante, tutto sa di un’esuberanza giovanile, distesa su un quadro dipinto in bianco e nero. C’è la spensieratezza delle screwball comedies; c’è l’allegria dei musical classici; c’è l’ingenuità di un cinema che cerca il sorriso, strappando il cuore nel racconto di una gioventù innamorata di due anime destinate a incontrarsi, separarsi, per non abbandonarsi mai. Poi ecco che il tempo passa, il mondo degli adulti subentra e con esso la mole di segreti e bugie nascoste, scoperte, accettate e poi rigettate in faccia. Una maturità raggiunta e restituita con un classicismo di ripresa figlio di quell’epoca delle commedie sofisticate degli Anni Settanta, gli stessi in cui la famiglia Bernstein è stata colpita, ma non affondata, da scandali, misteri, segreti.

La perfezione è una terra straniera e fallace

Il passato di Bernstein non è una terra straniera per Cooper, ma un campo fertile di emozioni da scrutare e immortalare incollandosi ai volti di Leonard e di Felicia.

La macchina da presa si àncora agli sguardi dei due giovani, facendosi complice e testimone della loro sintonia. Ma quando – dopo anni di segreti, tradimenti e non detti – quella chimica verrà meno, ecco che la stessa inquadratura si allontana, bloccandosi nello spazio di riprese frontali, tanto ampie quanto isolanti le figure di una famiglia vicina a livello fisico, ma lontana emotivamente, e per questo incapace di condividere la medesima inquadratura. Un’immobilità corporea, quella che avanza nel corso dell’opera, che va a reduplicare una rigidità filmica di una macchina da presa che non solo riflette i canoni di una liricità musicale che va a caratterizzare le ultime fasi della carriera di Bernstein, ma che si àncora a un dolore terreno, incapace di volare oltre la fantasia e l’immaginazione di un metronomo cardiaco che scandisce cuori pronti di nuovo a battere all’unisono, e di corpi destinati a rincontrarsi per abbracciarsi un’ultima volta. La stessa performance di Cooper è un processo interpretativo volto a restituire sia esteticamente, che caratterialmente, la figura del leggendario compositore, senza per questo scadere nella facile caricatura.

Cooper si sveste pertanto della propria personalità per trasformarsi completamente in Leonard Bernstein. La sua è una performance orientata alla ricerca del perfetto mimetismo; un copia e incolla lontano dai canoni dell’imitazione che va ad applicarsi perfettamente alla potenza di un’essenza umana e professionale di un uomo capace di schiacciare una stanza affollata con il peso del proprio genio e del proprio ego.

Camaleontico e ossessionato dai dettagli, Cooper gioca sulla modulazione della voce, sui movimenti di Bernstein, sui suoi sguardi penetranti, e sulla potenza dei suoi gesti. Un’attenzione costante, fortemente meticolosa, che proprio per questo finisce per raffreddare la portata emozionale dell’intera opera; troppo concentrato sulla resa finale di ogni singolo dettaglio, Cooper non si accorge di quanto abbia reso quasi artificioso, forzato e poco incisivo il suo Leonard Bernstein. Manca nella sua performance – e nell’opera generale – quel senso di imprevedibilità tale da rendere tutto realistico, verosimile, fallace e per questo umano.

L’assenza della musica

Quello di Bernstein è un personaggio istrionico, fuori dagli schemi, geniale, talentuoso; ma Bernstein era anche un personaggio egocentrico, narciso; una galleria di sfumature ben colte da Cooper, il quale con Maestro restituisce la complessità di un uomo bramoso di rivelare tante parti di sé. Eppure, in questa narrazione volta a scoprire il Bernstein uomo, a essere sacrificato è il racconto di una carriera mai veramente indagata, ma toccata superficialmente.

Come evidenzia il titolo stesso – Maestro – in Bernstein convivevano due vite parallele fortemente correlate tra di loro; due esistenze che, come gemelli siamesi attaccati al petto, non potevano sopravvivere l’una al di fuori dell’altra. C’era il Bernstein uomo e il Bernstein compositore: insieme i due creavano un ibrido, quel “Maestro” che presta il proprio lemma all’opera di Cooper. Eppure, non tutti sono in possesso di una conoscenza pregressa circa le opere composte, scritte, o dirette da Bernstein; tralasciando questo aspetto essenziale, Cooper crea una voragine nozionistica e biografica tale da far traballare quel tempio cinematografico da lui così attentamente innalzato in memoria del compositore. Si tratta di una lacuna che si fa sentire, come un gong a fine esibizione, e che per completezza andava colmata dato lo stretto legame tra l’uomo e la sua arte.

Leonard e Felicia, un gioco tra Yin e Yang

Che quella di Bernstein sia la colonna vertebrale di Maestro lo sottolineano i continui primi piani che investono lo spettatore; sono riprese ravvicinate su uno sguardo perennemente acceso da mille fuochi emozionali, e che vanno a opporsi diametralmente a quelle destinate a Felicia, una donna colta perlopiù di spalle.

Una struttura dicotomica, questa, che pare aspirare alla completezza dello Yin e Yang, e nella quale il volto di una donna tradita, colpita ma mai affondata, si fa sempre meno frontale, preferendo nascondersi dagli sguardi degli altri così da evitare di tradire un dolore represso, o una sofferenza soffocata. Di lei vedremo dunque sempre più le spalle, quelle spalle che hanno portato i fardelli di una menzogna continua, e il peso di una famiglia ideale, a tratti spaccatasi in mille cocci da raccogliere e unire riparandoli con l’oro. Se Cooper è indirizzato verso l’ottenimento di un mimetismo quasi perfetto, Carey Mulligan pare nemmeno sforzarsi per riportare in vita Felicia. Basta uno sguardo basso, o una risata fragorosa, che ecco compiersi la magia. Giocando in sottrazione, la Mulligan si fa prestigiatrice delle emozioni, costruendo un ponte diretto tra ciò che è una verità rivisitata e la storia reale.

Quello concepito da Cooper insieme a Carey Mulligan è dunque un monitor cardiaco sotto forma di inquadratura. I suoi sono beep di un monitoraggio fatto di battiti che da continui e ripetitivi si faranno sempre più scarni e sincopati, riducendosi a linee costanti di un cuore che mal sopporta e mal funziona; un cuore che soffre, lacerato, come quello di Felicia, donna che sacrifica sull’altare dell’amore giovanile le proprie illusioni, per vestirsi degli abiti di una Giunone moderna, divinità del matrimonio, del parto, che per il bene della propria famiglia rigurgita tradimenti e segreti di cui si macchia il proprio marito Giove/Leonard Bernstein.

Ed è così che Maestro da sinfonia in solitudine si fa orchestra eseguita da mille voci, mille mani, pronte a restituire il battito di due cuori affranti, eppure destinati a pulsare insieme, rendendo vivi due corpi che solo allontanandosi possono ritrovarsi, mentre tutto attorno è musica da comporre, assimilare e suonare.

Fonte : Everyeye