La sospensione dell’accordo di Schengen e la conseguente chiusura delle frontiere tra Slovenia e Italia sono un bluff. I controlli ai valichi minori non esistono e i migranti che provengono dalla rotta balcanica sanno che per arrivare a Trieste è sufficiente camminare – come fanno da sempre – nei boschi alle spalle della città. Ho percorso a piedi i 70 chilometri che separano la Croazia dal nostro Paese, nella zona dell’Istria nordorientale. Di polizia e guardie di frontiere a presidiare i confini neanche l’ombra. La chiusura delle frontiere, decisa dal governo italiano dopo l’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre, è una messinscena che si manifesta solamente quando si oltrepassano i valichi principali. Eppure, oltre alla presunta minaccia terroristica che si anniderebbe nei Balcani, una delle ragioni alla base della decisione era la volontà di ridurre – o quantomeno tentare di dissuadere – il flusso migratorio (nella foto sopra, il giornalista di Today.it, Nicolò Giraldi, durante il cammino dalla Croazia a Trieste – foto Giovanni Aiello-TriestePrima).
Ma quando si tratta di frontiere che tagliano in due boschi e radure, a controllare i migranti non c’è quasi mai nessuno. Prima di arrivare in Italia la polizia slovena mi intercetta due volte, nei boschi dietro la val Rosandra. La prima è nei pressi della ferrovia, vicino a Podgorje. Arrivano con un’auto civetta. Non hanno sirene, né lampeggianti. Dalla macchina scende rapido un agente. Mi viene incontro, chiede i documenti, dove vado e dove penso di attraversare il confine. Quest’ultimo particolare è importante: soprattutto per il Suv della polizia che mi attenderà qualche chilometro più avanti, proprio lungo la direttrice che porta alla frontiera con l’Italia.
Così la polizia slovena mi ha rilasciato
Il primo controllo dura qualche minuto, ma riesco a rimettermi in cammino quasi subito. Due ore dopo riemergo dalla boscaglia a nordovest dell’abitato di Črnotiče e attraverso una strada asfaltata. Passa qualche secondo e un Suv nero mi blocca. “Perché Trieste-Podgorje e Trieste di nuovo?”, mi chiedono mentre mi schedano una seconda volta. “Arrivo dalla Croazia”, rispondo. C’è un cane nell’auto. Abbaia un paio di volte. Sono perplessi, forse sospettano che io sia un trafficante, un passeur. Ma sono cittadino europeo e sufficientemente equipaggiato per sembrare un escursionista. Controllano nella banca dati, mi tengono lì qualche minuto. Poi mi lasciano andare. Sono “pulito”.
Molte delle quasi 12 mila persone che quest’anno sono arrivate a Trieste dalla rotta balcanica hanno messo un piede dopo l’altro lungo questa pista. “Se ne vedevano a centinaia ogni giorno – racconta un residente di Pinguente, località nell’Istria croata -, oggi sono pochi, ma continuiamo a vederli”. È soprattutto da qui che partono i viaggi a piedi dei migranti verso l’Italia. Arrivano con un autobus da Fiume. In estate il collegamento è quotidiano. Oggi invece il pullman parte solo di giovedì. Quello che io ho fatto in tre giorni, i migranti lo concludono in meno di 20 ore. Trangugiano drink energetici uno dietro l’altro. Lungo la rotta le lattine di Redbull, Monster e Hells sono dappertutto.
Quando arrivo al castello di Socerb (San Servolo, lungo la linea che separa Slovenia e Italia) la pioggia batte incessantemente. Scivolo verso il confine. Sui sentieri ci sono spazzolini da denti, dentifrici quasi intonsi, scatolette di sgombro, giubbotti di pelle ma anche sportivi, piccole scarpe e scarpette per bambini, “metalline” (le coperte argentate), stivali, berretti di lana, ombrelli, passeggini, schede telefoniche, permessi di soggiorno – stracciati. Il tutto congelato in un paesaggio che a dicembre inoltrato è di una desolazione mortificante.
La bugia delle fototrappole nei boschi
L’arrivo in Italia si manifesta soltanto dopo aver oltrepassato la frontiera non presidiata. C’è un cartello bianco in italiano e sloveno, di quelli della Guerra fredda: “Confine di Stato a 70 metri” (in fondo all’articolo, la foto di Giovanni Aiello-TriestePrima). Mi accorgo di aver sconfinato solo dopo aver visto il cartello. Senza quell’indicazione nessuno potrebbe rendersene conto. E chi percorre questa rotta lo sa molto bene. Nel corso del tempo si è modernizzata. Viaggiare senza farsi “prendere” dalla polizia non è impossibile, anzi. Quella italiana – nonostante gli annunci di fototrappole nei boschi – se ne sta sui valichi maggiori. Nessuno pattuglia i boschi. Come son passato io, passa chiunque. Una volta arrivato a San Dorligo della Valle mi fermo davanti alla caserma dei carabinieri. Si affaccia sulla piazza. Piove e le strade sono deserte.
Per arrivare fin qui, ho camminato ore sulle stesse traversine metalliche della linea ferroviaria (foto sopra di Giovanni Aiello-TriestePrima), che i migranti provenienti dalla rotta balcanica percorrono per oltrepassare la frontiera istriana tra la Croazia e la Slovenia. Sono state fabbricate dall’Ilva, quasi un secolo fa, negli altiforni di Piombino. Lo indica il marchio stampato con la data: anno VIII dell’era fascista. Oggi, lungo questa ferrovia i treni non viaggiano quasi più, ma i migranti la preferiscono alla strada perché lì possono nascondersi facilmente. Il confine infatti attraversa i binari. Ma anche qui, come tra Slovenia e Italia, a controllare non c’è nessuno. Ai lati della linea corre una barriera di filo spinato tirata su da Lubiana molti anni fa: i varchi per oltrepassare il groviglio di acciaio, però, sono dappertutto.
Dove la frontiera italiana non è presidiata
Gli esseri umani lungo la rotta a dicembre non si vedono, se non per le tracce che abbandonano senza farsi riprendere da nessuno. Tra Sveti Martin e Pinguente incontro tre ragazzi. Due portano una busta della spesa che sembra pesante. Camminano uno a fianco all’altro. Il terzo li segue. A guardarli non sembrano provenire dalla stessa terra. I lineamenti dei volti sono diversi. Non è neanche detto siano richiedenti asilo. Potrebbero essere runner, accompagnatori. O di quelli che rimangono in Croazia per “vendere” la tratta ai nuovi arrivati, così da racimolare altri soldi per riuscire a ripagare il debito contratto in patria.
Dalla primavera del 2024 Fiume sarà collegata a Trieste da un treno. Ai migranti che continueranno a percorrere questa tratta non servirà più prendere un bus per Pinguente e mettersi in cammino verso il capoluogo giuliano. Ci arriveranno alle sue spalle, con un biglietto di seconda classe, direttamente in stazione a Opicina. In attesa di quel giorno, per passare le frontiere che separano la Croazia dall’Italia basta mettere un piede dietro l’altro lungo la ferrovia. Camminando sui binari dell’Ilva o lungo i sentieri del Carso, si passa che è un piacere. Lo sanno i migranti, lo sa la polizia, lo sanno tutti.
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Fonte : Today