Secondo il dizionario Merriam-Webster, la parola dell’anno 2023 è stata ‘autentico’. Non deepfake o il neologismo rizz, che pure compaiono nella lista. No, il primo posto è occupato da un termine che tutti noi conosciamo bene ma che, negli ultimi anni, ha assunto un valore e forse un significato diverso, o quantomeno un po’ più sfaccettato.
L’autenticità è diventata una performance
“Autentico – scrive il dizionario nell’articolo che annuncia la parola dell’anno – è ciò che i brand, gli influencer dei social media e le celebrità aspirano ad essere. Elon Musk ha fatto notizia quando ha affermato che le persone dovrebbero essere più autentiche sui social media. App e piattaforme come BeReal fanno della registrazione di esperienze autentiche il loro scopo principale. Non importa quanto artificio e calcolo siano necessari nella produzione di questi video. Paradossalmente, con i content creator autentici ormai riconosciuti come il gold standard per creare fiducia, l’autenticità è diventata una performance”.
È difficile non pensare a questa definizione guardando il video in cui Chiara Ferragni si scusa, dopo la multa comminatale dall’Antitrust sul pandoro realizzato con Balocco lo scorso anno. Tutto è costruito per suonare autentico: l’abbigliamento, la stanza ordinaria, con qualche vestito piegato sul letto, il tono di voce sinceramente dispiaciuto. Lo sforzo, per esporsi pubblicamente dopo quello che Ferragni stessa ha definito – forse in modo leggero – “un errore di comunicazione”, è stato quello di sembrare una persona qualunque, dispiaciuta dopo un normale incidente di percorso. Tutto mentre annunciava, seppur con voce contrita, di aver deciso di donare un milione di euro all’Ospedale Regina Margherita di Torino.
Thread vuole tenere lontani gli influencer?
Nei giorni scorsi, un amico mi ha chiesto: ma questa della Ferragni, non sarebbe una di quelle cose che possono mettere fine a una carriera? Non ho una risposta a questa domanda. Il post di scuse è stato un prevedibile successo, in termini di numeri assoluti: al momento in cui scriviamo, ha oltre 28 milioni di visualizzazioni, con quasi 70mila commenti. Molto di questi, certo, non sono positivi. La sensazione, però, è che, più che di Ferragni in sé, questa storia sia un po’ più l’occasione per parlare del ruolo degli influencer nel nostro ecosistema digitale.
Ci ho pensato ancora prima della storia di Balocco. Come molti sanno, lo scorso 14 dicembre è arrivato anche in Europa Threads, il rivale di X (Twitter, insomma) creato da Meta. Ed è sempre interessante, comunque la si pensi, assistere alla nascita di un nuovo social network: c’è quel momento di spaesamento, quel periodo in cui tutto sembra in discussione, le rendite di posizione valgono un po’ meno di prima (nonostante Threads sia collegato a Instagram).
Ecco, in questi giorni di interregno, una posizione che mi è parsa piuttosto comune su Threads è la volontà di tenere lo spazio al riparo dagli influencer. Del resto, un social network testuale pare più accessibile agli utenti comuni: non c’è bisogno di saper montare video o fare foto, né tantomeno di costruire scene per immagini perfette, basta scrivere. E questo, secondo alcuni dei primi utenti, potrebbe essere un modo per tenere lo spazio al sicuro da chi i contenuti li crea per professione, con un preciso ritorno economico.
Cos’è il de-influencing
Lo scetticismo nei confronti degli influencer non è cosa nuova, in assoluto. Nel corso di quest’anno, abbiamo sentito spesso parlare di de-influencing, ovvero di quei creator online che fanno recensioni sincere, opposte a quelle sponsorizzate degli influencer di professione. Addirittura, alcune agenzie specializzate hanno parlato di una perdita di influenza: Pr Daily la chiama influencer fatigue, raccontando una ricerca che dice che circa un utente su tre dichiara di odiare chi consiglia prodotti sui social network per professione e di trovarli, in generale, inaffidabili. Tutto questo mentre le aziende tagliano i budget per la pubblicità tradizionale, per investire sempre di più nell’influencer marketing.
Una premessa: il fenomeno influencer nasce da un vuoto di potere. Da un momento in cui, da un lato, le abitudini di fruizione di un gruppo sempre più ampio di persone stavano cambiando; dall’altro, buona parte di chi di lavoro parlava alle persone giornalisti, attori, celebrità) non riusciva ad adattarsi a quei nuovi spazi. In questo vuoto, hanno trovato posto persone in grado di interpretare quei cambiamenti e di occupare uno spazio: non ci bastava più vedere i contenuti degli amici, avevamo bisogno di uno star system, di un nuovo sistema mediatico. Il punto è che in questo calderone, anche per la natura stessa delle piattaforme, è entrato di tutto: il discriminante, del resto, era ed è la capacità di attirare l’attenzione delle persone, di compiacere l’algoritmo.
Attorno a questo fenomeno si è sviluppato un mercato: il capitalismo ha capito che l’attenzione delle persone si stava spostando verso nuovi spazi, nuove celebrità. E, anche qui, c’è stato un buco, un vuoto di potere: abbiamo inseguito questo fenomeno, cercando prima di capirlo poi (in modo ancora insufficiente) di regolamentarlo.
In questo contesto, è importante riconoscere che non esistono social network, almeno nel modello che conosciamo, senza influencer o content creator. Lo scrive bene la giornalista statunitense Taylor Lorenz, nel suo ultimo libro Extremely Online. Già ai tempi dei blog e di MySpace, spiega Lorenz, “i social media erano già una macchina per la fama. Metti in contatto milioni di persone online e alcune personalità si distingueranno. Lo faranno, diventeranno virali e attireranno una folla. I creatori di contenuti sono stati i primi a realizzare il potere culturale latente nelle piattaforme di social media”.
In secondo luogo, esiste sì una sorta di stanchezza nei confronti di un certo genere di influencing. Nei confronti, in particolare, di quella modalità di creazione di contenuti che rende qualunque cosa, qualunque aspetto della vita, un oggetto, una merce da vendere al migliore offerente. Nei confronti di un’autenticità che, pian piano, smette di essere vicina a quella degli utenti: inizi persona qualunque, poi cominci a guadagnare e la tua quotidianità smette di essere quella di chi ti segue. E allora il velo, il patto tacito, cade: riconosciamo sempre di più la costruzione, desacralizziamo sempre di più quel processo comunicativo e culturale.
L’autenticità sui social non esiste
Siamo, forse, sulla strada di un rapporto più maturo con l’influencing e con la creazione professionale di contenuti online. Un rapporto che deve partire da un assunto: l’autenticità sui social network non esiste, è costruzione, è gioco di ruolo, è piano editoriale. Sarebbe meglio, probabilmente, non aspettarsela.
Lo scrive meglio di me Daniele Zinni, in un bel libro che si chiama Meme del sottosuolo: “Qualunque momento di sincerità sembrerà calcolato e spesso inevitabilmente lo sarà, per compiacere le richieste implicite del pubblico stesso e dell’algoritmo che a quel pubblico deve far arrivare il contenuto. Ci saranno momenti di equilibrio, post che bucheranno lo schermo per un giorno o due, ma un realismo convincente sul lungo periodo resterà fuori portata. Sulle piattaforme che conosciamo e su ciò che puntano a diventare, non credo si dissiperà mai la sensazione di avere a che fare con una falsità strutturale e contagiosa”.
Fonte : Today