Tech: i personaggi del 2023

Dal 12 dicembre è in edicola con Repubblica, La Stampa e il Secolo XIX l’album di IT “Tech person of the year” in cui parliamo delle persone, delle aziende, dei gadget e delle idee che hanno segnato un anno di tecnologia

“Ci sono momenti in cui la forza più significativa di un anno non è una persona ma un processo, e il generale riconoscimento da parte della società che questo processo sta cambiando il corso di tutti gli altri processi”. Lo scrisse la rivista Time a dicembre 1982, per spiegare come mai sulla copertina dedicata alla “persona dell’anno” ci fosse un computer. All’epoca Steve Jobs si arrabbiò moltissimo: era certo di meritare quella cover. Ventuno anni dopo, potremmo usare la motivazione di Time per affermare che la protagonista del 2023 è stata l’intelligenza artificiale. In particolare ChatGpt, l’IA generativa capace di imitare la creatività umana.

In questi mesi l’IA ci ha accompagnato nel bene e nel male. Ci ha fatto scrivere come Shakespeare, dipingere come Picasso e scattare ritratti come Steve McCurry. Ma ci ha anche ingannato con le sue risposte fasulle. E ci ha messo addosso una nuova paura: essere spazzati via, un giorno, da una macchina.
L’IA non ha volto. Ma nel mondo reale ha le fattezze di un maschio adulto, occidentale e bianco. Sono i tratti di Sam Altman, l’imprenditore che incarna gli algoritmi di ChatGpt, e degli uomini alla guida delle “7 sorelle dell’IA”: OpenAi, Meta, Inflection, Anthropic, Amazon, Google, Microsoft. I loro dirigenti erano tutti schierati, a luglio scorso, quando il presidente Biden li ha convocati alla Casa Bianca per discutere la regolamentazione dell’IA. Uno di loro, l’italo-americano Dario Amodei, ha fondato Anthropic con la sorella Daniela. Lui è il Ceo. Lei la presidente. La ripartizione dei ruoli non deve ingannare: in prima fila c’è sempre Dario. I due hanno chiamato Claude la loro IA. Può suonare femminile, invece non lo è. Il nome è un omaggio a Claude Shannon, matematico e ingegnere statunitense considerato il padre della teoria dell’informazione. Non è un semplice tributo. “Volevamo controbilanciare i nomi femminili scelti dalle altre aziende tech per i loro assistenti digitali” ha detto Anthropic al New York Times. L’abbondanza femminile è solo virtuale. Nel mondo le donne costituiscono solo il 22% della forza lavoro nell’IA. E quando arrivano al vertice di un’azienda, come è successo recentemente a Mira Murati, magari restano un passo indietro. Diciamocelo: il gender gap, nell’IA, è tutto fuorché intelligente. (Pier Luigi Pisa)

I personaggi dell’anno

1. Sam Altman

(di Riccardo Luna)

Solo ora mi rendo conto che di Sam Altman non sappiamo davvero nulla. Sì certo, lo chiamiamo “il papà di Chat Gpt” perché guida Open Ai, la startup di San Francisco che ha scatenato l’era dell’intelligenza artificiale generativa. E la sua improvvisa cacciata da parte del consiglio di amministrazione con rientro trionfale nel giro di cinque giorni, è stata appassionante come una serie tv. (Una cosa così non si vedeva da quando Giulio Cesare attraversò il Rubicone per andare a prendere Roma: da allora lo immagino con una corona di alloro sulla testa).
Poi di Altman sappiamo che OpenAi l’ha fondata nel 2015 con Elon Musk come no profit per salvare il mondo da uno sviluppo malvagio dell’intelligenza artificiale: ma nel frattempo Musk se ne è andato sbattendo la porta; della no profit resta un’etichetta sbiadita mentre brilla la valutazione di 80 miliardi di dollari; e anche il proposito di salvare il mondo dall’IA sembra rovesciato, è diventato piuttosto “salvare lo sviluppo dell’IA dalle regole che il resto del mondo vorrebbe imporre”. Ma uno che fa fuori Musk, ribalta lo scopo dell’azienda e la lancia alla conquista del futuro non è uno da sottovalutare. Di questa persona dovremmo sapere tutto, visto che da lì passa forse il mondo che abiteremo. No?
Per questo dico che di Sam Altman non sappiamo abbastanza. Lo abbiamo trattato come un gregario, “l’ex numero uno di Y Combinator”, il famoso acceleratore di startup della Silicon Valley, trascurando il fatto che con la sua gestione non doveva più limitarsi a investire in una decina di nuove aziende tech ad alto potenziale di crescita, ma doveva diventare uno strumento per conquistare il mondo. I più diligenti sanno citare Loopt, il nome della startup con cui Sam Altman, a 19 anni, entrò a Y Combinator e che vendette qualche anno dopo per una cifra che era più o meno pari ai soldi che ci erano stati investiti. Un fallimento che lui stesso ha ricordato qualche mese fa per dire a tutti quelli che ci stanno provando “che nessuno pensa tanto ai tuoi fallimenti come fai tu e quindi non tormentarti e provaci di nuovo”. Frase perfetta per il nuovo re di Big Tech. Ora ci toccherà scoprire chi è davvero.

2. Elon Musk

(di Emanuele Capone)

Elon Musk c’è sempre, nel bene e nel male. Ha avuto momenti migliori, certo, e forse neanche lui immaginava che la guida di Twitter – il social che ha acquistato nel 2002 e che ha ribattezzato X lo scorso aprile – sarebbe stata così tormentata: oggi la piattaforma vale meno della metà di quanto Musk l’ha pagata, cioè meno di 20 miliardi di dollari. Ma lui ha sempre detto di non averla comprata per fare soldi. Quindi probabilmente gli va bene così, almeno per ora.

Un po’ meno bene va a investitori, azionisti e dipendenti rimasti (Musk ne ha fatti fuori più di 6.000): il futuro dell’azienda appare sempre appeso a un filo.
Ma al netto dei problemi finanziari, dell’invasione di spunte blu e dei post discutibili, c’è un fatto difficilmente contestabile: X resta il posto dove si cercano le notizie. Magari stando un po’ più attenti alle fonti, perché la moderazione non funziona più bene come prima e chiunque può “autoverificarsi” di avere il profilo verificato.
Musk non è però solo X, e anzi quest’anno ha raggiunto traguardi importanti con le altre aziende che possiede. A maggio, Neuralink ha avuto il via libera dell’FDA per la sperimentazione sull’uomo delle sue interfacce neurali. Un chip nel cervello potrebbe risolvere patologie neurologiche e altri disturbi importanti.
Musk inoltre detta sempre più legge nel settore dell’aerospazio. SpaceX è diventata indispensabile per la Nasa e le altre agenzie: se non si prendono i razzi di Musk, difficilmente si può andare in orbita.
Infine Tesla. È vero che l’azienda non vende più come prima. E che non vale più come prima. Ma vale comunque più di marchi storici come Toyota, Volkswagen, Mercedes, BMW, Ford e altri. Sommati insieme. E poi sono iniziate le consegne dell’atteso pickup chiamato Cybertruck. Con un paio d’anni di ritardo, ma in tempo per poter chiudere il 2023 con un “promessa mantenuta”. Provateci voi, in un anno che non è il vostro anno.

3. Satya Nadella

(di Jaime D’alessandro)

Che sia stato il suo anno molti lo hanno capito con la querelle scoppiata in seno a OpenAi sedata, in tempo record, proprio da Microsoft. Eppure Satya Nadella, che dal 2014 la dirige, aveva già dimostrato di saper giocare le sue partite ad un livello molto alto. Originario di Hyderabad, classe 1967, in dieci anni ha cambiato il volto di una compagnia che sembrava esser diventata troppo lenta e opaca per il mondo rutilante della tecnologia. Oggi al suo confronto sono gli altri ad apparire incerti se non addirittura maldestri: Elon Musk e il disastro combinato con X; l’immobile Apple di Tim Cook; la Google di Sundar Pichai, anche lui indiano ma di Madurai, arrivato nel 2015 e deciso a puntare tutto sull’intelligenza artificiale salvo poi farsi superare dalla “vecchia” Microsoft. Nadella ha prima virato verso i servizi cloud, poi quest’anno ha scommesso 13 miliardi di dollari su OpenAi contribuendo a farne il fenomeno del momento. E la crisi ai vertici di quest’ultima ha fatto capire bene chi ha le redini in mano.
 

4. Dario e Daniela Amodei

(di Eleonora Chioda)

Stanno costruendo il concorrente numero uno di ChatGpt. Si chiama Claude, è un’intelligenza artificiale generativa all’avanguardia, che mette però al centro la sicurezza. L’etica. L’uomo.

Loro sono due fratelli italoamericani, Dario (nella foto) e Daniela Amodei, rispettivamente Chief Executive Officer e Presidente di Anthropic. Papà italiano di Massa Marittima, mamma americana di Chicago.
Dario è il genio informatico. A 15 anni, già frequentava le lezioni di calcolo infinitesimale e di matematica all’Università di Berkeley. Laurea in Fisica a Stanford, dottorato all’Università di Princeton. Era lo scienziato a capo del progetto di Gpt-2 e Gpt-3.
Daniela è un’umanista. Studi di letteratura, politica e musica, grande esperienza nel mondo tech: è entrata in Stripe quando erano in cinquanta. È uscita portando il team a mille persone.
Hanno lavorato per cinque anni in OpenAi. Poi nel 2020 sono usciti, sbattendo la porta (si dice) e hanno fondato Anthropic, considerata una delle startup più promettenti del Pianeta. Nel 2023 Google e Amazon hanno investito più di 7 miliardi di dollari nella loro azienda.
«Fin dal primo giorno, abbiamo lavorato per rendere i nostri modelli affidabili, seguendo il concetto delle tre acca: helpful, harmless and honest. Utili, non dannosi e onesti» spiega Daniela.
Secondo Reuters, dopo il licenziamento (poi rientrato) di Sam Altman, il board di OpenAi avrebbe chiesto a Dario Amodei di sostituirlo e di fondere le due aziende. No, è stata la sua risposta. A fine novembre hanno lanciato Claude 2.1, modello ancora più potente.

5. Mira Murati

(di Arcangelo Rociola)

Quarantotto ore. Per un capo d’azienda forse la carriera più rapida di sempre. Almeno in Silicon Valley. Una pecetta nel caos creato dal Consiglio di amministrazione di OpenAi che dopo la rimozione di Sam Altman ha nominato lei, Mira Murati, nuovo amministratore delegato.
34 anni, nata in Albania, formazione in Canada, buon italiano e genitori in Italia, Murati il 17 novembre scorso si è prestata per un attimo come pedina nel confuso scacchiere del suo Cda. Lo ha fatto per amore verso l’azienda, dirà poi. Ci sarebbe da crederle. Per anni è stata dietro le quinte di OpenAi. Ha messo a terra tutti i principali progetti dell’azienda di San Francisco, da ChatGpt a Dall-E. Nel 2022 è posta capo dello sviluppo tecnologico di una società diventata intanto sinonimo stesso di intelligenza artificiale. Ruolo che è tornata a ricoprire dopo il rientro rocambolesco di Altman, appena due giorni dopo la sua nomina. Murati è il vero motore dell’azienda. È lei che detta i tempi di gioco, gli obiettivi da rispettare, come eseguire al meglio la strategia. È lei a gestire i rapporti con Microsoft, che in OpenAi ha investito 13 miliardi di dollari. Ed è sempre lei il volto che i regolatori di Washington e Bruxelles hanno incontrato quando si è trattato di definire il perimetro d’azione dell’IA. Murati insomma è la regista arretrata di OpenAI. Ma ha un futuro da attaccante.

6. Yann LeCun

(di Bruno Ruffilli)

“Superstizioni”, “oscurantismo medievale”, “stronzate di prim’ordine”: così Yann LeCun liquida le paure sullo sviluppo incontrollato dell’intelligenza artificiale, veicolate da quelli che definisce “utili idioti”. Nel mondo di ChatGpt, dove tutti sono esperti di niente e parlano di ogni cosa, di tanto in tanto la voce di uno scienziato serve davvero. Specie se poi è uno dei padri dell’odierna intelligenza artificiale, insignito per questo del Turing Award (una sorta di Nobel dell’informatica) nel 2018 per aver sviluppato le reti neurali convoluzionali, insieme con Yoshua Bengio e Geoffrey Hinton. LeCun, che è docente alla NYU e capo del FAIR, il centro di ricerche di Meta sull’intelligenza artificiale, ha di recente riassunto così su X la sua visione di come si evolverà: (0) ci saranno IA superiori all’uomo nel futuro, (1) saranno sotto il nostro controllo, (2) non ci domineranno né ci uccideranno, (3) medieranno tutte le nostre interazioni con il mondo digitale, (4) per questo motivo dovranno essere piattaforme aperte in modo che tutti possano contribuire alla loro formazione e messa a punto.

7. Paolo Benanti

(di Marco Bani*)

Quando lo incontri non sai mai se è vestito con il saio da frate o con abiti casual. Paolo Benanti è infatti un francescano del Terzo Ordine Regolare, ma ha l’animo da nerd, affascinato dalla tecnologia, dalle neuroscienze e dal loro impatto sociale ed etico. Ed è proprio questo muoversi fluido tra sacro e profano che colpisce: dalla teologia morale alle conseguenze delle app di dating, non c’è tema che non riesca a spiegare.
Benanti si è conquistato un ruolo di primo piano come influencer dell’intelligenza artificiale, una rockstar del settore, contribuendo con le sue riflessioni a una migliore comprensione del mondo che cambia. Non tutti possono vantare di avere una propria parola nella Treccani, Benanti c’è riuscito con “algoretica”, ormai diventata parola universale per descrivere l’indagine sui problemi etici collegati all’utilizzo dell’IA. In una stagione piena di conflitti globali, ha ispirato la “Rome Call for AI Ethics”, una dichiarazione firmata da cristiani, ebrei e islamici, oltre che dalle grandi aziende tecnologiche, per un approccio consapevole e critico alle nuove tecnologie. Cuore romano, anzi, romanista, lo spirito di sacrificio del suo essere francescano si vede anche nella sua missione di divulgazione e supporto alle politiche pubbliche: in Italia non c’è task force, commissione, gruppo di esperti che non lo includa.
Non sorprende quindi che sia l’unico italiano a far parte del prestigioso Comitato sull’Intelligenza Artificiale delle Nazioni Unite. Se non partecipa a una conferenza in giro per il mondo, per discutere di futuro, lo trovate nella parte più antica della Capitale, nel suo convento con vista sui Fori Imperiali, preziosa risorsa per la sua piccola comunità e per il mondo intero.
*Analista di politiche per il digitale presso il Senato della Repubblica

8. Christian Greco

(di Vittorio Emanuele Orlando)

E’ stato nominato torinese dell’anno. Ed è stato tra i mattatori indiscussi dell’Italian Tech Week 2023, dove ha entusiasmato ed emozionato il pubblico. Christian Greco, classe 1975, ha dato una bella spolverata al Museo Egizio, di cui è direttore dal 2014, ha avviato una profonda riflessione sul ruolo sociale (e quindi politico) dell’istituzione Museo: “Un presidio di libertà, dove si attua l’articolo 3.2 della Costituzione”. E ha rivendicato il ruolo della tecnologia, fondamentale in un luogo deputato a conservare e preservare la memoria. Una ricerca di frontiera per ricostruire la “biografia dell’oggetto, che è un mezzo per avviare un dialogo tra chi ci ha preceduto e chi ci segue”. Frontiera, cioè (anche) limite: “L’etica. A chi ci chiede interventi invasivi per studiare il Dna delle mummie rispondiamo no. Grazie allo sbendamento virtuale siamo riusciti ad attribuire un nome agli artisti dell’epoca, a studiare pigmenti per capire dove oggetti e documenti sono stati creati. È tanto, tantissimo. Però qui ci fermiamo, lasciando le ulteriori scoperte possibili alle nuove generazioni”.

9. Ian Hogarth

(di Antonello Guerrera)

E’ lo “zar” del primo ministro Rishi Sunak sull’intelligenza artificiale, di cui è uno dei massimi ma anche critici esperti: “Sono preoccupato per lo sviluppo di questa IA che aspira a essere Dio”, ha scritto di recente.

Dallo scorso giugno, Ian Hogarth, inglese di 41 anni, è a capo della task force del governo britannico sulla IA, modulata su quella anti-pandemie. Laureato in ingegneria a Cambridge, studi anche in Cina, Hogarth è il fondatore della piattaforma per concerti musicali Songkick e si occupa di machine Learning e intelligenza artificiale da oltre vent’anni. Oggi è presidente della start-up di quantum computing Phasecraft, autore del sito “State of AI report” e per Time è tra le 100 persone più influenti su AI.
Sunak gli ha dato le chiavi della task force e un budget da 100 milioni di sterline. Briciole rispetto ai 40 miliardi di dollari che solo Google ha investito in IA nel 2022. Ma almeno ora c’è una piattaforma per provare a regolare l’IA, come vuole Hogarth: “Altrimenti rischiamo una crisi come quella del Covid. E l’umanità potrebbe essere marginalizzata, o annientata”.

Fonte : Repubblica