Ferrari Recensione: Michael Mann riscrive il mito, con un Adam Driver super

Enzo Ferrari ondeggia quando cammina. Un metronomo sconnesso che occupa più spazio possibile con le gambe ma incede storto, diviso, l’esatto opposto di quello che vuole per le sue macchine e che vorrebbe forse per la sua vita, piena di buche, incisa di dolore, che caracolla come un bambino nei suoi primi passi. Si biforca, Ferrari, proprio nei due bambini della sua esistenza: il figlio morto prematuramente e quello illegittimo inaspettato, entrambi parte di un motore vitale che non riesce a tenere in riga.

Michael Mann torna al cinema con Ferrari, in sala dal 14 dicembre (qui se volete il trailer di Ferrari e già che ci siamo ecco tutti i film al cinema a dicembre 2023) e lo fa miscelando l’uomo e il simbolo, un tentativo continuo di tenere assieme i pezzi che sembrano rotolare giù da una scarpata, pronti a schiantarsi contro la prima roccia. Eppure Adam Driver si marmorizza, sta, bandiera emotiva tra i flutti di un momento critico per la Ferrari e le corse automobilistiche su strada. Quella che tanto ha fatto per il cinema di Michael Mann e che tanto porterà via a Enzo Ferrari, donandogli tutto.

Tra Enzo e la Ferrari

Michael Mann mette subito l’accento su ciò che vedremo, dramma umano che si nutre della morte di un figlio e del tradimento di un uomo. Enzo Ferrari però è Enzo Ferrari, e non può essere altrimenti.

La vicenda storica è qui utilizzata come contorno di una figura che vive per il suo mestiere, che non potrebbe fare diversamente, che si smembra in officina, con i piloti, sul tracciato di prova, con i giornalisti e che quindi a casa porta solo brandelli. Gli stessi che ha creato la perdita del figlio, Dino, tra lui e la moglie Laura, una Penélope Cruz stoica nel suo dolore allungato da primi piani freddamente calcolati nella loro totale emotività. Così come quelli che Michael Mann usa per Adam Driver, tagliandolo a pezzi con inquadrature affilate che l’attore regge perfettamente al pari di una lamiera che gli contorce la vita, portando il suo cuore verso la Lina Lardi di Shailene Woodley, donna conosciuta durante la Seconda guerra mondiale dalla quale ha avuto un figlio, Piero, che vive e lo proietta al futuro, mentre Laura lo trafigge con gli occhi del passato. Enzo Ferrari però i suoi occhi li tiene fissi sulla strada, la vera Musa da cui tutto parte e contro cui tutto finisce. Ancora, ancora e ancora.

Sfrecciare a pezzi

Non c’è altra via dentro Ferrari: solo la corsa. Enzo quasi non si cura dei conti perché l’unica cosa importante è la malattia che lo affligge, quella passione per i motori che come un morbo accettato da chi lo contrae si porta via vite al minimo sbaglio. Enzo Ferrari lo dice chiaramente: chi gareggia su una macchina conosce il proprio eventuale destino e così fa lui, procrastinando un autografo da ottenere per il figlio nella maniera più semplice possibile (il pilota in questione è suo dipendente) come a sottolineare che quella malattia, anche se non mortale, lo permea in continuazione, in ogni sua scelta, in ogni suo sguardo schermato al mondo dalla coltre nera dei suoi occhiali. Prima Ferrari, poi Enzo.

E quindi ecco che Laura e Lina lo sovrastano sul lato umano con una facilità quasi fanciullesca, tra rabbia e rassegnazione, indicandogli la via per la sua Ferrari e per trovare un giusto mezzo sul quale non sembra minimamente in grado di salire. Una tragicità incarnata soprattutto da Penélope Cruz, Dea ex machina capace di vedere oltre il dolore, oltre la vittoria breve, oltre le urla: prima Ferrari, poi Enzo.

Corse e rimorsi

Ci sono momenti di cinema sublime in Ferrari, istanti che cristallizzano la pellicola facendola esplodere in un secondo, come il tragico incidente all’ultima Mille Miglia del 1957. Un rasoio che scorre sulla macchina da presa di Michael Mann, capace di tagliare Enzo Ferrari fin dall’inizio, definito “creatore di vedove” dalla stampa e delineato come un Moloch pronto a distruggere tutto e tutti pur di arrivare primo.

Saturno che divora i suoi figli, aveva scritto qualcuno, e infatti in quell’incidente sono cinque i bambini a morire, vittime collaterali di una passione per le corse che sembra non lasciare superstiti. Enzo Ferrari lo accetta come parte del tutto, perché quel mondo lì, in quegli anni, è esattamente così: mortifero, pronto a sbranarti al minimo sbaglio. Michael Mann lo sa e indugia sul dolore che scava anche la statua di Ferrari, che di fronte alla morte non può che mantenere la sua immagine pubblica sgretolandosi nel privato. Eppure questo è l’Enzo Ferrari di Michael Mann, come lo sono state tante altre figure del suo cinema: creature che vivono secondo una funzione che li totalizza, quasi sovrumana, per la quale non possono concepire altro. C’è la gara, ci sono le macchine, ci sono i morti, c’è la tragedia personale di una vita divelta. Ma c’è anche l’eternità.

Fonte : Everyeye