La Chimera Recensione: l’ineffabile bellezza del film di Alice Rohrwacher

“Di me non farà mai; Un cavaliere del lavoro; Io sono d’un’altra razza; Son… tombarolo”. Spero che Fabrizio De André possa perdonarmi il cambio di una consonante nella sua canzone, lui parlava di bombe e tritolo, mentre Alice Rohrwacher di tombe e ladruncoli. Ma come il cantautore riusciva a portarti nel suo mondo con poche parole e una nota anche la regista fa la stessa cosa: basta qualche immagine de La chimera per essere dolcemente trascinati nell’immaginario filmico di Alice Rohrwacher, un realismo picchiettato di magico che ti si infila sottopelle inquadratura dopo inquadratura, come pennellate impressioniste all’aria aperta di una grotta antica.

È un cinema di suggestioni, quello de La chimera, di sguardi rubati a oggetti che non sono fatti per gli esseri viventi, di passioni fortissime e imprescindibili, di rimpianti che zoppicano e di scontro continuo fra sacro e profano, con tutta la bellezza e il dolore di un Paese che non c’è più e che è terribilmente vivo. Ed è la storia dell’impossibilità a negare chi siamo, nel bene e nel male, proprio come il bombarolo di De André. Un film che porta avanti l’idea cinematografica di Alice Rohrwacher, come vi raccontavamo nella recensione di Lazzaro felice e nella recensione di Le meraviglie.

La chimera e le tombe

Un po’ tutti dovremmo provare a non tornare dove siamo stati bene, ed è proprio quello che non riesce a fare l’Arthur di uno stupendamente trasandato Josh O’Connor, archeologo fallito che dopo essere uscito dalla prigione vera ritorna in quella che gli dà un senso, cioè una “famiglia” di tombaroli che negli anni ’80 tra Lazio e Toscana va a rubare reperti etruschi per rivenderli, vivendo alla giornata.

È colpa loro se è finito dentro ma senza di loro non riesce a vivere, infilandosi nella stretta spirale che lo ribalta di nuovo, letteralmente, facendogli guardare la terra se alza gli occhi al cielo. Alice Rohrwacher fa irrompere il magico con la sensibilità rara delle immagini proprio tramite Arthur, che riesce a scovare le tombe sepolte grazie alle sue doti da rabdomante, finendo per essere imprescindibile per i tombaroli, perché senza di lui cielo e terra non si potrebbero mai mescolare. E quindi La chimera inizia ad allargare lo sguardo, passando dai primi piani di Arthur e di Beniamina, amore perso che lo tiene ancora legato alla sua umanità, alle vedute rurali di una terra di confine che canta nonostante la povertà, per poi tornare a respirare davvero solo quando si osservano le meraviglie sotterranee di un universo che non c’è più.

L’ancora di lana

C’è una sorta di sensibilità ineffabile che permea tutta La chimera. Quella di un mondo che sentiamo così vicino, le nostre campagne, un passato prossimo che ancora pulsa in larghe faglie dell’Italia, assieme a un sentimento di distante appartenenza, un tentativo di sentirsi parte di qualcosa che vada oltre la nostra ossessione, che sia quella di scoprire reperti antichi con la voglia di farlo solo per l’arte, ma poi comunque venderli al mercato nero per guadagnarci da vivere, o che si tratti di farci accogliere dalla mamma della persona che amavamo e che ora non c’è più.

Arthur fa esattamente questo, è un ossimoro vivente, torna da Flora, la mamma di Beniamina interpretata dall’infinita Isabella Rossellini, che lo protegge come lui vorrebbe fare con gli oggetti razziati dalle tombe. Ma così come tutte le altre figlie di Flora cercano di razziare lei, sepolcro aperto di un’idea famigliare e artistica che svanisce, anche Arthur non può fare a meno di sfiorare una vita che vorrebbe ma non gli compete, simboleggiata da Italia, badante tuttofare con il volto di Carol Duarte. L’unica che prova a scrollargli la terra di dosso dandogli una chance di abbandonare un mondo di furti ai morti per il tocco dei vivi, vedendo qualcosa fra gli occhi spenti dell’archeologo tombarolo che nemmeno lui riesce a scorgere.

Il filo che non tiene

Mentre guardiamo La chimera sentiamo di essere sempre ancorati a qualcosa, che lentamente si insinua e srotola la nostra curiosità in un continuo sguardo oltremondano.

Come un filo che si scuce dai nostri pensieri e che tentiamo di lasciarci alle spalle ma senza davvero riuscirci, giustapposto da Alice Rohrwacher in immagini dense di significato, ossimori che ribaltano la nostra percezione accostando Ilva e statue etrusche, archeologia e furto, sogno e realtà. Arthur è affascinante e trasandato, artistico e pragmatico, libero di percepire quello che gli altri non sentono e ancorato per questo alla sua gabbia dorata sotterranea.

Una persona che cammina a metà e sembra essere strattonato da una parte o dall’altra ma che in ultima analisi non riesce a rinunciare alla propria natura ambivalente, un’ipotesi assurda che lo fa proseguire, tra sogni lucidi e oggetti che non sono fatti per i nostri occhi.

Ma c’è qualcosa che non gli permette di andare avanti, di abbandonare sé stesso e darsi una possibilità: c’è ancora l’ennesima tomba da scoprire, il suo personale anello che non tiene, questa volta però trovando finalmente la pace a cui aggrapparsi, quella che muove il sole e l’altre stelle, che lascia uno spiraglio anche sottoterra.

Fonte : Everyeye