Il nuovo Patto di stabilità sembra ormai avere preso la forma definitiva. Germania, Francia, Italia e Spagna hanno trovato l’intesa sulle nuove regole, e per chiudere la partita pare che manchino solo gli ultimi dettagli e vincere le ultime resistenze di alcuni Paesi frugali. L’obiettivo è raggiungere il via libera definitivo entro l’anno, in modo che il ritorno nel 2024 dei vincoli fiscali, sospesi in seguito alla pandemia e congelati con la guerra in Ucraina, avvenga con un quadro normativo più chiaro e realistico, e che non impantani ancora una volta l’Europa.
I limiti del vecchio Patto
Il vecchio Patto, infatti, non convince più da tempo la stragrande maggioranza degli economisti. Anche gli esperti della Commissione europea, considerati a lungo gli oscuri difensori dell’austerity, hanno ammesso il suo fallimento: non ha aiutato i Paesi più indebitati, come l’Italia, a ridurre il fardello del debito pubblico, e in contemporanea ha bloccato la crescita economica complessiva del continente. Inoltre, per come era stato strutturato, il Patto è riuscito solo in pochi casi a trasformare le raccomandazioni di Bruxelles in azioni concrete, venendo per lo più disatteso.
Per esempio, nonostante le ripetute violazioni delle regole, nessun Paese è stato mai sanzionato con la ‘multa’ prevista in questi casi, ossia un’ammenda pari allo 0,1% del Pil. Semmai la sanzione reale (non scritta nelle regole) è stata quella di scatenare aspri scontri politici tra Bruxelles e alcune capitali, come Roma, con effetti negativi per gli Stati interessati sul fronte della stabilità sui mercati (si pensi allo spread).
Il nuovo Patto dovrebbe colmare queste lacune, offrendo ai governi percorsi di riduzione del debito pubblico e del deficit più sostenibili e realistici, e lasciando loro il giusto margine di manovra per portare avanti gli investimenti, tanto più a fronte della necessità di dar seguito alla doppia transizione ecologica e digitale, e di non restare indietro rispetto a Usa e Cina. Alle regole più flessibili, almeno nelle premesse, saranno affiancate sanzioni più concrete in caso di deviazione dagli impegni. In altre parole, chi sgarra, stavolta pagherà. Ma vediamo nei dettagli cosa cambia.
I parametri
Il Patto di stabilità nella versione attuale prevede che gli Stati membri mantengano un rapporto tra spesa annuale in deficit (cioè superiore alle entrate fiscali) e Prodotto interno lordo (Pil) pari al 3% e un rapporto tra debito pubblico e Pil pari al 60%. La critica maggiore al Patto ha riguardato soprattutto il secondo parametro: i Paesi che superano la soglia del 60% devono impegnarsi in un percorso di riduzione del debito che prevede un taglio del 5% all’anno. Questo percorso è stato considerato irrealistico da raggiungere per chi, come l’Italia, ha un debito pubblico grande oltre due volte il parametro di riferimento. L’ingigantimento dei debiti in seguito alla pendemia ha reso ancora più irrealistico questa regola.
I due parametri su deficit e debito, nella nuova formulazione, restano. Ma cambia il modo e i tempi in cui andranno raggiunti. Alla Commissione europea sarà dato il compito di stabilire piani pluriennali con i singoli Stati membri, ciascuno dei quali terrà conto delle specifità dei conti del Paese interessato. I piani avranno una durata di 4 anni, prolungabili a 7 se, per esempio, un governo si impegna a portare avanti determinate riforme e investimenti.
I piani pluriennali
I piani mirano a ridurre sia il debito, sia il deficit di chi è al di sopra dei parametri del Patto. Chi ha un debito tra il 60 e il 90%, dovrà ridurlo al ritmo dello 0,5% all’anno. Chi ha un debito superiore al 90%, come l’Italia, dovrà ridurlo dell’1% all’anno (ricordiamo che finora era del 5%). Per il nostro Paese, il nodo più complicato riguarda però le spese annuali, ossia il deficit.
Secondo l’accordo raggiunto a oggi, i Paesi indebitati oltre il 60% dovranno non solo rispettare il limite del 3% del deficit, ma mettere da parte nel corso dei loro piani un “tesoretto” di salvaguardia, una sorta di salvadanaio da rompere in caso di crisi improvvise. Si parte dall’1% del Pil per i meno indebitati, per arrivare all’1,5% per gli Stati come l’Italia. Per riempire questo salvadanaio, bisognerà fare tagli annuali dello 0,3% se il piano è di 4 anni, e dello 0,2% in caso di 7 anni. In entrambi i casi, è meno di quanto previsto dalle attuali regole (0,5%).
Le flessibilità
Vista così, sembra tutto un tirar acqua al mulino dell’Italia. Ma dietro le percentuali si annodano una serie di dettagli tecnici che possono rendere anche questi nuovi piani di rientro, per quanto più diluiti e meno rigidi, tutt’altro che semplici da attuare. Innescando bracci di ferro con Bruxelles che stavolta, oltre agli effetti indesiderati come quelli sullo spread, comporterebbero sanzioni vere. La parola d’ordine del nostro governo è stata “flessibilità” da affiancare a parametri e limiti. Per la precisione, Roma ha chiesto di scontare dal calcolo del deficit una serie di spese per investimenti considerati strategici dall’Europa stessa, come quelle per il Pnrr e quelle militari. Ma anche di tenere conto dell’effetto dei tassi di interesse sui conti quando la Bce, come successo di recente, li aumenta per contrastare l’inflazione in tutta l’Eurozona.
La richesta è stata accolta in parte con l’inserimento di una serie di “flessibilità interpretative”: la Commissione europea potrà scontare dal calcolo del defcit le spese per la difesa, la quota nazionale per il Pnrr, il cofinanziamento dei progetti sostenuti dai fondi Ue (per il momento, solo per il biennio 2025-2026), e la spesa aggiuntiva derivante dall’aumento dei tassi (per il periodo 2025-2027). Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha insistito perché queste flessibilità siano più strutturali (ossia non legate a fattori temporanei come il Pnrr o l’aumento dei tassi della Bce). Ma rispetto al “no” secco che la Germania aveva sollevato nelle scorse settimane, il passo avanti c’è. Inoltre, rispetto al vecchio Patto, stavolta le regole indicano chiaramente che se ci sono pandemie o guerre improvvise che mettono in subbuglio l’economia, i Paesi possono scostarsi temporaneamente dal percorso di riduzione dei deficit. Di contro, se il debito pubblico non cala adeguatamente, le flessibilità salterebbero.
Le sanzioni
Per far rispettare il percorso di spesa concordato, la Commissione potrà avviare misure disciplinari, che potrebbero finire in sanzioni, contro un governo che superi la sua spesa di un certo importo in un dato anno, o di un certo importo cumulativamente nei quattro anni. o un periodo di sette anni. Le multe saranno semestrali e pari allo 0,05% del Pil (per l’Italia, circa 1 miliardo di euro).
Le nuove regole dovranno adesso affrontare gli ultimi negoziati. In settimana, ci sarà il vertice dei capi di Stato e di governo dell’Ue, che dovrebbe dare la spinta decisiva in un verso o nell’altro. Se ci sarà un’intesa, i ministri dell’Economia e delle Finanze dei 27 sono pronti a riunirsi in via straordinaria prima di Natale per firmare l’accordo conclusivo. Il condizionale è d’obbligo non tanto per il Patto in sè, quanto per le altre partite che vi ruotano attorno. Per esempio, è ormai chiaro che i frugali vogliono che l’Italia, in cambio delle concessioni sul Patto, ratifichi finalmente il Mes, il meccanismo europeo di stabilità inviso a buona parte del governo. Di contro, il ministro Raffaele Fitto ha messo nel calderone anche la questione dell’aumento del bilancio Ue, uno dei dossier più caldi al vertice di Bruxelles di questa settimana: la Commissione ha chiesto 66 miliardi in più da qui al 2027 per far fronte alla guerra in Ucraina, ma anche per finanziari patti sui migranti come quello con la Tunisia, tanto cari al nostro Paese.
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Fonte : Today