Francesco Baschieri, l’uomo dei podcast e la exit di Spreaker

Ha creato qualcosa che non c’era. “Non c’era ma era possibile”. L’ha fatto crescere con pochissime risorse. “Direi con il contagocce”. Ha portato la startup da Bologna a New York, passando per San Francisco e Berlino. “Se fossi rimasto in Italia non ce l’avrei mai fatta”. Dieci anni di fatica e poi la svolta: un’exit che ha fatto felici gli investitori. Francesco Baschieri, 48 anni, è il founder di Spreaker, piattaforma per creare, distribuire e monetizzare podcast, nata nel 2010 a Bologna e passata attraverso 10 anni di “lacrime e sangue”. In mano sempre una valigia di cartone. Ha bussato a tantissime porte. E nel 2020 Spreaker è stata acquisita da iHeartmedia, il più grande broadcaster americano, un’emittente che controlla oltre 850 stazioni AM e FM, con un fatturato di oltre 6 miliardi di dollari.

Ingegnere informatico, Francesco oggi vive tra New York e Miami, ed è tuttora il Ceo di Spreaker. Il suo contratto scade alla fine del 2024. E ora per lui è tempo di bilanci. E di lesson learned. “Siamo stati gli scarafaggi del mondo delle startup. Di quelli che sopravvivono alle catastrofi, perché sono piccoli, si accontentano di poco e fanno le cose con zero risorse. Essere scarafaggi non ti porta a scalare in fretta, non ti fa apparire sexy, ma almeno non ti fa morire subito. Prima di partire abbiamo fatto un’analisi del settore corretta. Non sapevamo però che se l’analisi nel lungo periodo è giusta, nel breve rischia di essere un bagno di sangue”.

La storia di Spreaker parte con 4 amici, ex soci di un’altra startup già venduta, che si ritrovano intorno a un tavolo a fare brainstorming per trovare un’idea per il loro futuro. Uno di loro aveva partecipato a una radio libera. “Proviamo a immaginare una piattaforma dove ognuno possa fare, direttamente dalla sua camera, show radiofonici live. L’idea era nuova e nessuno la capiva. Quando cercavo soldi agli investitori e dicevo “radio”, tutti pensavano alla musica e dicevano “no, grazie”. Noi invece intendevamo una radio parlata. Allora dicevo “podcast” e mi rispondevano: ‘il podcast è morto, mettetevi a fare video'”.

“Sono partito per gli Stati Uniti, un po’ alla sperindio, con la convinzione che la voce e la parola avessero invece ancora molto da dire“. I primi anni sono duri. I 4 amici iniziano però a intuire che il podcast puro ha senso. Si focalizzano sempre più su questo, diventando un tool per creatori di contenuti.

“Abbiamo raccolto i primi soldi da IAG-  Italian Angels for Grow: 250 mila euro. Metà ce li hanno dati subito, l’altra metà dopo sei mesi, facendo vedere i primi numeri. Una cosa lontanissima dal mondo d’oggi. Un amico ieri mi raccontava di aver raccolto 700 mila dollari con in mano solo un Power Point”.

 Il punto di svolta intorno al 2013. “Esce un nuovo sistema operativo della Apple, iOS 8, con l’applicazione di Podcast separata da iTunes e già preinstallata sul telefono. Ed esplode Serial, un podcast crime di grande qualità con le dinamiche tipiche delle serie TV.  La gente ha cominciato a parlarne…. Intanto nel 2017 mi sono trasferito definitivamente a New York. Abbiamo acquisito una realtà simile alla nostra ma più piccola, che faceva cose interessanti nel mondo della pubblicità. Siamo diventati una startup americana, fatturavamo in Usa, ma lavoravamo in Europa. Con il Covid, c’è stata un’accelerazione”.

Nel 2019 arriva la prima proposta di acquisizione da iHeartmedia, il più grande broadcaster americano.

Grande lavoro, contatti, telefonate poi non se ne fa nulla. “Nel 2020 tornano. Ero in Italia per le vacanze estive. Quasi non ci credevo più. Invece dopo tre mesi di due diligence, il 20 ottobre del 2020 abbiamo chiuso l’exit e siamo diventati dipendenti dell’azienda che ci ha acquisito. Ci hanno pagato tutto subito e ci hanno fatto un contratto che ci vincola per 4 anni. Spreaker è rimasta però indipendente, ho visto il mio capo solo il giorno dell’acquisizione”.

La storia di Spreaker è bella fin dal nome. “Cercavamo una parola con meno di otto caratteri e il dominio.com libero. Spreaker è nato per caso, dalla moglie del primo CTO. In olandese significa speaker. Un nome facile da ricordare e bello.  Alle conferenze, leggono veloce sul badge e pensano che io sia uno speaker. Uno di quelli che ha qualcosa da dire. E mi trattano tutti benissimo”.

“Ho imparato tanto. Ma se non fossi andato all’estero, le cose sarebbero andate diversamente. Ho guadagnato abbastanza soldi, ma non mi definirei ricco. Poteva andare molto meglio? Sì. Abbiamo triplicato il fatturato dopo l’exit, ma non lo immaginavamo.  E temevamo di rimanere con il “cerino” in mano… Fare startup è stata un’esperienza incredibile e voglio continuare ad avere quella mentalità. Ma abbiamo fatto errori. In 10 anni abbiamo raccolto un totale di circa 1 milione di euro. Pochissimo. Per avere due soldi che ci duravano pochi mesi, abbiamo dato via la stragrande maggioranza del capitale e preso decisioni che oggi una persona che esce dall’università si vergognerebbe di prendere. Noi invece eravamo già più vecchi ed esperti, eppure… Eravamo sognatori con la sindrome di don Chisciotte. Ci perdevamo nella nostra passione. Per anni ho vissuto con il terrore di fare una cosa stupida, di cui tutti si accorgevano tranne me”. 

Da sempre Francesco scrive software. Due startup, due exit.  Il filo conduttore: il trasferimento di contenuto creato da altri. E il mondo della pubblicità. “Ci vuole un po’ di follia per cominciare a fare qualcosa in un campo di cui non sai niente”

Che cosa ha fatto differenza per te? “Io che sono innamorato del nuovo, ho riscoperto la perseveranza. Una cosa che mai mi sarei immaginato di avere. E la capacità di sacrificarmi: ho fatto scelte necessarie quando nessuno le voleva fare. Me ne sono andato dall’altra parte del mondo, solo, a 40 anni, senza contatti. Mi ero appena sposato e mia moglie non ha potuto seguirmi per motivi personali. Ma l’Italia non era il posto giusto per fare startup. Bisognava andare dove era meglio”.

E ora? “Ora siamo un’azienda che fa 57 milioni di fatturato l’anno, 20 milioni di Ebitda. E 300 milioni di download al mese. Siamo diventati molto bravi a vendere pubblicità sui podcast di tutto il mondo in maniera automatica. E far crescere l’azienda in un contesto corporate è stato molto interessante. E ora? Non so cosa farò dopo. Sono 13 anni che mi occupo di questo e forse non so fare altro. Però di una cosa sono certo: tornerò in Italia”.

Fonte : Repubblica