Aereo, una persona su tre pensa di essere capace di farne atterrare uno

Si chiama effetto Dunning-Kruger, ed è in qualche modo l’opposto della cosiddetta sindrome dell’impostore. Sono entrambi bias cognitivi: il secondo è quello che porta a sottovalutare le proprie capacità e a ritenersi, per l’appunto, un impostore (ovvero bravo a imbrogliare il prossimo facendogli credere di essere competente), mentre il primo descrive la tendenza a sopravvalutarsi senza essere realmente in grado di quantificare le proprie competenze né quelle altrui. Un esempio particolarmente evidente è stato svelato dai risultati di un sondaggio statunitense a cui hanno risposto circa 20mila persone. La domanda era “Quanto sei certo di poter riuscire a far atterrare in sicurezza un aereo passeggeri in una situazione di emergenza, potendo contare solo sull’assistenza dei controllori di volo?”. Bene: una persona su tre (e un uomo su due) si è detto “molto sicuro” o “abbastanza sicuro” di riuscire a farlo, pensando probabilmente che portare a terra un 747 sia più o meno come parcheggiare un’utilitaria. Insomma, Dunning-Kruger in piena regola.

Gli studi precedenti

Quella appena condotta non è che l’ultima di una serie di osservazioni sul tema. A partire dalla fine degli anni novanta, quando gli psicologi David Dunning e Justin Kruger formalizzarono la questione, dando il proprio nome alla tendenza degli incompetenti a sopravvalutare le proprie capacità, diversi lavori hanno ulteriormente studiato (e ampliato) il fenomeno (ma c’è da dire che la letteratura se ne era accorta molto prima: già all’inizio del secolo scorso Marcel Proust scriveva che ”l’inesattezza, l’incompetenza non diminuiscono la presunzione, anzi”). Nel marzo 2015, comunque, uno studio condotto da un gruppo di psicologi della Yale University, pubblicato sul Journal of Experimental Psychology: General, aveva mostrato che ci basta una ricerca su Google per sentirci immediatamente più ferrati su un certo argomento (è il cosiddetto Google University Effect): l’aspetto più interessante messo in luce dallo studio è che l’effetto si verificava anche quando i soggetti non riuscivano a trovare la risposta che stavano cercando. Pare che l’accesso alle informazioni, anche se non congrue rispetto alla domanda, sia già sufficiente a farci sentire competenti.

Sempre nel 2015 un altro gruppo di psicologi e neuroscienziati pubblicò uno studio sui Proceedings of the National Academy of Sciences in cui dimostrava quanto fosse facile per gli incompetenti condizionare gli altri quando si tratta di prendere decisioni condivise. Ve ne avevamo parlato qui su Wired: in una serie di esperimenti i partecipanti, divisi in coppie, dovevano osservare su uno schermo una composizione di sei particolari figure chiamate reticoli di Gabor e indicare in quale di due intervalli di osservazione l’immagine conteneva il bersaglio, cioè una figura leggermente più scura delle altre cinque. Ogni membro della coppia si sottoponeva alla prova separatamente, indicando agli sperimentatori quanto si sentiva sicuro della scelta, ma quando i risultati non combaciavano fra loro i ricercatori chiedevano a uno dei due, scelto a caso, di prendere una decisione a nome di entrambi. Poi alla coppia veniva svelato il risultato e si procedeva a un’altra sessione. Ci si potrebbe aspettare che, tentativo dopo tentativo, i membri di ogni coppia riuscissero a riconoscere chiaramente chi dei due fosse più bravo a trovare il bersaglio, e a usare questa informazione quando bisognava prendere una decisione a nome della coppia. I ricercatori hanno invece osservato che chi era meno bravo col test, oltre a mostrarsi particolarmente sicuro delle sue scelte, sottovalutava il parere del compagno di squadra quando era chiamato a decidere per entrambi. Allo stesso tempo, i partecipanti più in gamba tendevano a dare una eccessiva importanza al giudizio del compagno di squadra meno abile. Gli autori hanno chiamato questo effetto equality bias, traducibile come pregiudizio di eguaglianza: entrambe le parti sono portate a comportarsi come se fossero tanto bravi o incapaci quanto il proprio compagno.

Sapresti far atterrare un aeroplano?

I risultati del sondaggio sull’atterraggio dell’aeroplano (che tra l’altro non è l’unico di questo genere: ce ne sono altri con domande tipo “Quanto sei sicuro di riuscire a praticare le manovre di rianimazione su una persona in arresto cardiaco?” oppure “Quanto sei sicuro di riuscire a praticare la manovra di Heimlich su una persona che sta soffocando?”, tutti con risposte qualitativamente comparabili) sono stati recentemente discussi sulla rivista The Conversation da un gruppo di esperti in aviazione della Griffith University (effettivamente già il fatto che un gruppo di esperti in aviazione si sia dovuto mobilitare per spiegare perché far atterrare un aereo di linea non è alla portata di tutti dovrebbe far pensare, ma tant’è). “Abbiamo tutti sentito storie di passeggeri che hanno fatto atterrare un aereo nel caso in cui il pilota era incosciente” scrivono “tuttavia, tali situazioni sono relative ad aerei piccoli e più semplici da pilotare. Far volare un jet commerciale è tutt’altra cosa”. E difatti l’atterraggio è la fase più complicata del volo: “Per atterrare con successo, un pilota deve mantenere una velocità adeguata, e allo stesso gestire la configurazione del carrello e dei flap, seguire le regole e le indicazioni dei controllori di volo e completare una serie di liste di controllo cartacee e digitali. Quando l’aereo si avvicina alla pista, i piloti devono valutarne accuratamente l’altezza, ridurre la potenza dei motori, regolare la velocità di discesa e assicurarsi di toccare terra nel punto corretto. Poi bisogna attivare i freni e la spinta inversa per fermare completamente l’aereo. Tutto questo va fatto in pochi minuti e richiede molta concentrazione, tecnica e abilità che possono essere acquisite solo attraverso una formazione approfondita. La conclusione è categorica: “Se non conoscete le basi del volo le vostre possibilità di far atterrare un aereo, anche con l’assistenza dei controllori di volo, sono vicine allo zero”.

Fonte : Wired