“Help”, con un cartello appeso sul balcone di casa tre sorelline di 12, 10 e 8 anni di Reggio Calabria hanno salvato la vita alla madre presa di mira ancora una volta dal marito violento (vedi foto sotto). Con il loro coraggio probabilmente hanno sventato quello che poteva diventare l’ennesimo caso di femminicidio in Italia. Negli ultimi giorni stiamo assistendo a tantissime storie come queste, dove davanti a episodi di violenza domestica sono i bambini a chiamare le forze dell’ordine, segno che la prevenzione comincia a dare i suoi frutti. Un caso simile a Bologna, con il figlio minorenne di una coppia che dopo aver visto il padre picchiare selvaggiamente la madre mandandola a finire contro una porta a vetro ha deciso di chiamare i carabinieri.
Dopo il barbaro omicidio di Giulia Cecchettin, le manifestazioni in piazza contro la violenza sulle donne, i ripetuti appelli in tv e le iniziative in ambito scolastico e sportivo, si registrano non solo molte più telefonate da parte delle vittime al numero verde antiviolenza 1522, ma anche molte più chiamate al 112 da parte di bambini che assistono a maltrattamenti delle donne in casa. In pochissimi giorni già si vedono i primi risultati di quella che possiamo definire come la più massiccia campagna di comunicazione di sempre. Questo però da solo non basta, perché siamo in piena emergenza: nel nostro Paese ogni 3 giorni un uomo uccide una donna. Cos’altro possiamo fare? Lo abbiamo chiesto a Antonella Faieta, vicepresidente del Telefono rosa, associazione che dal 1988 aiuta le donne a far emergere la violenza sommersa all’interno delle mura domestiche.
5. Aiutare le vittime a riconoscere le violenze
“Ma in fin dei conti lui non è un violento, mi ha solo spezzato un dito”. Questo il racconto choc che la vicepresidente del Telefono rosa ci ha fatto parlando delle tante donne che non si rendono conto di essere vittime di violenza. A volte il calvario inizia con la mania del controllo sulla donna, poi diventa sempre più pressante, si aggiungono vari divieti: di vedere le amiche o i familiari, di andare al lavoro, di vestirsi bene, di truccarsi, di avere profili social. Così la vittima viene isolata dal resto del mondo e più facilmente manipolata dal suo aguzzino. Poi le offese e infine le botte.
“Riconoscersi vittima di violenza non è facile sotto tanti punti di vista”, racconta Antonella Faieta. A volte si pensa che essere maltrattate sia la normalità in un rapporto di coppia: “Non sei brava a fare la mamma, la moglie, non sai fare niente, non vali niente, non capisci niente, se provi a fare qualcosa nessuno ti crederà”, sono umiliazioni che le donne subiscono anche per molto tempo prima di capire che si tratta di violenza psicologica. Anche donne con una certa cultura e con lavori di prestigio arrivano a convincersi “di essere sbagliate, incapaci, inadeguate”. Si sentono dire: “Guarda che mi hai fatto fare, mi hai fatto arrivare ad alzarti le mani”. E arrivano a pensare: “È colpa mia se lui si comporta così. Se fossi diversa lui non lo farebbe”.
La vicepresidente dell’associazione spiega a Today.it che nella violenza di genere a differenza di altri reati esiste una ‘circolarità’ della violenza che manda in confusione la vittima. Dopo l’aggressione fisica o verbale l’uomo quasi sempre si scusa e promette che non lo farà mai più, poi però torna a denigrare e ad essere aggressivo e a scusarsi. La donna, disorientata da tutte queste emozioni contrastanti, è portata a credergli perché non si tratta di una violenza costante. Questo è il motivo che le tiene legate per molti anni, oltre alla presenza dei figli. “Bisogna iniziare a prendere consapevolezza che in un rapporto di coppia quella non è la normalità e che non si può essere trattate in questo modo”.
Altre volte ammetterlo vuol dire riconoscere di aver fallito, “perché quello è l’uomo che abbiamo scelto e con il quale abbiamo deciso di costruire una famiglia, di fare dei figli. Dover dire ho sbagliato non è facile”.
Le donne devono imparare a riconoscere quali sono i campanelli d’allarme, a capire che un uomo che alza le mani o che insulta non ama. Come? Con campagne mirate in tv, su internet, sui social, ma anche negli ospedali e nei supermercati e non solo in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ma durante tutto l’anno. Perché parlandone le donne possono riconoscersi nelle vittime di violenza e dire: “Quella sono io”.
4. Formare le persone per intercettare e sostenere le vittime
“Quando ci sono casi di cronaca su cui i media puntano per giorni i riflettori riceviamo più chiamate di aiuto del solito – rivela la vicepresidente del Telefono rosa – Quando trovano la forza di chiamare e di raccontare però le donne vanno credute, sostenute e protette”.
Le donne vittime di violenza domestica spesso non raccontano e non denunciano per vergogna, oppure perché hanno paura di ripercussioni sui figli e sui propri familiari, altre volte perché temono di non essere credute, proprio come hanno raccontato alcune donne a Today.it. Quante donne si sono sentite dire: “Chissà cosa gli avrai detto/fatto per avergli suscitato una reazione del genere” oppure peggio: “Ma sei sicura? È davvero successo questo? Non è che hai frainteso?”.
Ci vuole molta sensibilità da parte di chi è chiamato ad ascoltare, ecco perché servono persone competenti e formate che siano in grado di rassicurare le vittime. La formazione però non deve riguardare solo carabinieri e polizia, ma anche magistrati e avvocati. Essenziale anche l’attività svolta da assistenti sociali, operatori sanitari negli ospedali, nei pronto soccorso e nelle asl, perché tutta la rete del territorio è importante per intercettare le vittime di violenza. Di fondamentale importanza i fondi per sostenere e creare nuove case rifugio (vedi foto sotto), centri antiviolenza, numeri verdi e servizi di consulenza, per far sì che questi servizi siano sempre più facilmente reperibili.
3. Denunciare e proteggere le vittime
Denunciare è un passo importante, l’unico che possa mettere la parola fine a una lunga agonia. Ma dopo la denuncia, che deve essere resa meno traumatica possibile, bisogna anche assicurare protezione per le vittime e certezza della pena.
“L’importante è fare bene la valutazione del rischio per capire in che situazione si trova quella donna e che tipo di intervento bisogna mettere in atto per evitare che ci sia un aggravamento della situazione – dichiara Faieta -. La messa in sicurezza delle donne vittime di violenza e dei suoi figli comporta molte cose: posti nelle case rifugio, interventi immediati per bloccare l’autore delle violenze, indagini fatte bene per arrivare a una giusta sentenza. La formazione del magistrato su questo argomento è molto importante, perché serve a fare le indagini in maniera adeguata per evitare poi di avere un processo sguarnito”.
Un’altra nota importante: continuare a seguire sia le donne vittime di violenza che gli uomini condannati, specialmente quelli per cui è stata prevista la sospensione della pena a fronte della partecipazione a determinati programmi rieducativi per uomini maltrattanti. “Bisogna avere la certezza che questi programmi siano efficaci perché se poi un uomo che esce dal carcere la prima cosa che fa è andare a cercare la donna che l’ha denunciato allora abbiamo fallito”.
2. Educare le future generazioni
La formazione è di fondamentale importanza nella lotta alla violenza sulle donne, a partire proprio dalla scuola. “La sola educazione alle relazioni però non basta, serve un approccio diverso a questa tematica, tutte le materie andrebbero affrontate con un’ottica di questo genere, improntate alla parità” sostiene Faieta specificando che bisogna dare molto spazio al dialogo con i ragazzi.
“I ragazzi sono eccezionali, noi teniamo dei corsi nelle scuole da anni e devo dire che hanno una grande sensibilità. Tanti legittimano uno schiaffo per gelosia ma se poi li porti a riflettere, a ragionare, arrivano a capire e a cambiare idea”.
L’educazione alla parità di genere però non può avvenire solo nelle scuole, deve avvenire ovunque, a partire dagli spogliatoi di calcio o di quegli sport a forte presenza maschile, perché per combattere la violenza sulle donne dobbiamo arrivare al tanto auspicato cambio di mentalità. “Noi, ad esempio, facciamo anche corsi nelle aziende sulla violenza di genere che suscitano un notevole interesse”.
Un cambio di cultura servirebbe anche nel mondo della musica dove ci sono testi in cui si parla della donna in maniera assolutamente sbagliata, ma anche dell’amore. “Basta a frasi del tipo: ‘tu sei la mia vita, io muoio senza te’, questo è il messaggio che vogliamo dare? Quando la relazione finisce ci dispiace ma dobbiamo andare avanti, i ragazzi devono capire che la nostra vita non è finita”.
1. Promuovere l’autosufficienza economica delle vittime
Senza l’autosufficienza economica una donna non sarà mai libera. Qualcosa è stato fatto sinora in tal senso, ma bisogna fare molto di più, chiosa la vicepresidente dell’associazione ricordando il reddito di libertà e il congedo per motivi di violenza di tre mesi per non perdere il lavoro.
L’indipendenza economica è un aspetto fondamentale, le donne vittime di violenza devono poter essere indipendenti dal punto di vista lavorativo per crescere i loro figli e rifarsi una vita. Tante donne sono già formate ma altre necessitano di formazione per poter entrare nel mondo del lavoro e vanno sostenute, anche con progetti sovvenzionati da aziende private.
C’è poi un altro discorso economico da fare che riguarda le risorse da destinare alla lotta alla violenza sulle donne. “Fare un investimento serio sulla lotta alla violenza, attraverso tutto quello che abbiamo detto sinora, è un investimento per lo Stato – conclude Faieta -. Basti pensare a tutte le spese sanitarie (psicologiche, farmaceutiche, accessi al pronto soccorso, etc), alle assenze per malattia dal lavoro, al carcere: quanto costa la violenza sotto questo profilo? Bisogna pensare cinicamente che se noi facciamo un’opera di prevenzione facciamo pure un’opera di risparmio per le casse dello Stato”.
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Fonte : Today