I film su Godzilla che molto probabilmente non conoscete

Quando nel 1954 Ishiro Honda, storico collaboratore di Akira Kurosawa, diede alla luce Godzilla, non poteva neanche immaginare il fenomeno culturale che avrebbe scatenato. Poche creature cinematografiche si sono stabilizzate nell’immaginario come il mostro di casa Toho, forse solo King Kong. Più di trenta lungometraggi, tra Giappone e Stati Uniti nel corso di quasi settant’anni, nei quali ha vissuto le avventure più disparate, affrontando tutto e tutti, addirittura se stesso, avendo anche un figlio e generando imitazioni e parodie.

In occasione della messa in onda, su Apple TV+, del nuovo show del Monsterverse (qui il trailer di Monarch: Legacy of Monsters) dell’uscita nelle sale italiane del nuovo film di produzione nipponica (di seguito il trailer di Godzilla Minus One, tra i film al cinema a dicembre), sembra l’occasione migliore per rispolverare, in ordine cronologico, alcuni interessanti titoli del franchise troppo poco chiacchierati: non i migliori né i più sconosciuti, ma titoli che siano di più o meno buona fattura, abbiano un valore nella storia della saga e allo stesso tempo non abbiano avuto il successo di alcuni dei capitoli più noti, gravemente trascurati da un pubblico contemporaneo legato maggiormente alle produzioni statunitensi o più recenti (si veda la recensione di Shin Godzilla).

Godzilla – Furia di mostri

Nel pieno del periodo Showa – la prima serie di film prodotti tra il 1954 e il 1975 – Godzilla era diventato una sorta di eroe positivo, mutando le iniziali premesse horror della saga e orientandola verso un pubblico più giovanile. Almeno fino a Furia di mostri, del 1971, undicesimo capitolo della serie, a cura di Yoshimitsu Banno.

Il regista non aveva precedenti esperienze cinematografiche con il genere kaiju eiga (il monster movie giapponese) e fu scelto proprio per dare un drastico e significativo cambio di rotta rispetto al passato, divergendo dalla deriva infantile intrapresa in quegli anni e azzerando parte della continuity: Banno, in tal senso, puntò fortemente sull’ecologia e, senza troppi filtri, sulla denuncia contro l’inquinamento industriale.

Questi aspetti, uniti allo stile regia in linea con la fantascienza coeva (psichedelico e volto all’eccesso, figlio di una cultura, quella hippie e sessantottina, in cui non si risparmiavano numeri musicali e sequenze animate stravaganti e allucinate), fecero risentire non solo il pubblico, ormai abituato ai toni più leggeri delle opere precedenti, ma soprattutto, così sembra, il produttore Tomoyuki Tanaka, che non apprezzò le sperimentazioni, oltre che la trasparenza circa lo smaltimento dei rifiuti e il degrado industriale, e licenziò il regista anche al netto di un incasso positivo.

Rimasto troppo spesso in ombra e trattato con sufficienza, Furia di mostri, visto oggi, appare come uno dei capitoli più interessanti della prima epoca, che torna a mettere in scena cause-effetto plausibili per innestare il terrificante antagonista, il lovecraftiano e cosmico Hedorah, all’interno del contesto ecologista e ambientale, più vicino a problemi e necessità reali di quanto fatto in passato dalle altre storie. Una parabola che riesce, nei suoi momenti più impietosi, a pietrificare per una crudità che evoca i mali provocati dall’inquinamento, nel Sol Levante, durante la prima metà del Novecento.

“Cozzilla”

Negli anni Settanta era in voga una sorta di Godzilla-mania: superati i confini nipponici, in ogni parte del mondo venivano distribuiti i film della saga e, talvolta, subivano corposi rimaneggiamenti: tra i tanti, basti ricordare la versione americana del primo capitolo, che inseriva nelle vicende il punto di vista di un giornalista statunitense, stravolgendo la narrazione e storpiandone le caratteristiche più vicine alla cultura d’origine. Su quella americana si basò Luigi Cozzi, con intenti però più nobili e meno devastatori.

Il regista italiano era un grande amante del primo film di Honda e nel 1977 ne curò, come detto basandosi su quella made in USA, per questioni di diritti, una versione a colori – generata attraverso la tecnica Spectrorama 70 – per distribuirla nelle sale (in passato, Cozzi aveva già contribuito a diffondere molti horror stranieri in Italia, come L’invasione degli ultracorpi), che sarà in seguito comunemente nota con il nomignolo di “Cozzilla”.

Per esser distribuita, infatti, gli esercenti delle sale richiedevano film a colori e della durata di non meno di novanta minuti: se dal punto di vista del bianco si ovviò con la rilavorazione a passo uno della pellicola, fotogramma per fotogramma e attraverso gelatine colorate, per la durata si pensò di manipolare il materiale di partenza aggiungendo filmati di repertorio provenienti da altre opere di fantascienza e documentari sulle guerre, intervenendo anche su colonna sonora.

Considerata, al tempo, un’eresia, la versione italiana di Godzilla è in realtà un piccolo e divertente esperimento, dall’aura decisamente artigianale, che evidenzia l’amore e la passione per il cinema e per il lungometraggio originale. Presentato in una rara edizione al Trieste Science+Fiction Festival di qualche anno fa (grazie a una copia privata), purtroppo il lungometraggio è quasi impossibile da reperire, se non in qualità audio e video bassissime.

Godzilla contro Biollante

La seconda epoca, quella denominata Heisei, si aprì con una sorta di reboot del 1984 (che si ricollegava direttamente al primo film), seguito nel 1991 da Godzilla contro Biollante, uno dei titoli più importanti, ma inspiegabilmente meno noti alle masse, della filmografia sul personaggio. Godzilla torna qui ad essere protagonista, inaugurando una serie di opere che lo vedono fronteggiare gli avversari più disparati, evitando però di ricadere totalmente nella trappola dei toni giocosi della precedente era.

Si tornò così alle atmosfere orririfiche e macabre, cercando di contaminarle con elementi fantascientifici più moderni e dai toni adulti – in quel periodo, secondo degli addetti ai lavori, pare che il Giappone stesse “dimenticando” il disastro nucleare, portando così alla scelta di tornare ai temi originari, vicini alle paure primigenie degli spettatori – senza tralasciare, però, il coinvolgimento spettacolare, evitando di restringere ulteriormente il target. Il cervellotico soggetto di Godzilla contro Biollante, scelto attraverso un concorso di scrittura creativa, si sviluppa attorno a un complesso discorso circa l’ingegneria genetica, l’etica medica e la natura umana, gli aspetti morali della biologia e il ruolo di quest’ultima, spesso nelle mani sbagliate.

Impregnato da un’intensa storia umana di perdita – rara da trovare in questo filone di b-movie – il film trova in Biollante una delle sue carte vincenti: differente da buona parte dei nemici classici, che molti fan occasionali conoscono bene, la creatura, complessissima da realizzare e animare, incarnava perfettamente la biotecnologia con la quale l’uomo manipola le vite – una delle paure moderne che meglio possono essere paragonate al terrore del nucleare negli Anni Cinquanta. Tra i titoli più onirici e complessi del franchise, quasi un body horror di matrice cronenberghiana (gli anni, del resto, sono quelli immediatamente successivi ad opere come La mosca), che funzionerebbe, forse, anche privato della presenza del suo temibile protagonista.

Godzilla contro King Ghidorah

Le atmosfere cupe e drammatiche di Godzilla contro Biollante non convinsero il pubblico e l’insuccesso ai botteghini nipponici portò Toho e la sua dirigenza a rivedere il futuro della serie, anche e soprattutto per risanare il fallimento commerciale, tornando ai toni giovanili e puntando su nemici già rodati e apprezzati dal pubblico.

Fu scelto così King Ghidorah, drago a tre teste che aveva già esordito nel 1964, in Ghidorah: the Three-Headed Monster, e che viene qui riproposto affrontandone più approfonditamente le origini. Non solo, è anche il passato del protagonista ad essere, per la prima volta, riscritto: da creatura sottomarina stimolata, e poi trasformata, dai test atomici, Godzilla diventa un vero e proprio dinosauro sopravvissuto all’estinzione e tramutato in kaiju, come lo si conosce, dall’atomico.

Uno dei punti di forza del film in questione è però il ritorno, dopo un breve periodo dedicato alla serietà e a toni più maturi e oscuri, a una fantascienza meno impegnata, degna delle idee più bislacche dell’era Showa, anche se leggermente aggiornate al 1991. In casa Toho circolava la voce che il fallimento del precedente film fosse dovuto alla mancanza di spettatori giovani, più interessati a un altro titolo in quel momento nelle sale, Ritorno al futuro – Parte II: regista e produttore conclusero così che il pubblico fosse più incline al concetto di viaggio nel tempo, decidendo di renderlo uno dei punti topici della narrazione.

Aggiungendo ulteriori tocchi di imprevedibilità, si attinse a più fonti del presente e del passato per cercare di restituire un’esuberanza dalla quale Toho non voleva distaccarsi, sfiorando l’assurdo ma arricchendolo con un senso moderno della spettacolarità. Una sorta di Terminator, concettualmente, in salsa kaiju e aliena, figlio di un’idea postmoderna di cinema d’intrattenimento che mette al primo posto la partecipazione.

Godzilla vs Destoroyah

L’era Heisei, come già detto caratterizzata dall’alta contrazione di scontri adrenalinici, si concluse nel 1995 con uno dei titoli a cui gli appassionati sono più legati, inedito in Italia. La fine di Godzilla chiude un’era e omaggia sapientemente il cult del 1954, creando un nemico le cui origini, legate all’Oxygen Destroyer, si ricollegano perfettamente a quegli eventi.

Una fine resa inevitabile, secondo i produttori, dal pesante insuccesso delle due produzioni precedenti (vs MechaGodzilla e vs SpaceGodzilla), portando a pubblicizzare il film, preventivamente e a caccia di spettatori facili, con cartelloni che recitavano “Godzilla muore!”.

Godzilla vs Destoroyah alza la posta in palio, infiamma gli scontri e riporta i toni minacciosi dell’horror e dell’alta tensione – anche grazie a un design delle creature mai così spaventoso – che giovano notevolmente al coinvolgimento durante gli incandescenti momenti action, nel più classico stile del monster movie, almeno per due terzi della sua durata. Attraverso una narrazione ben equilibrata, il kaiju eiga però frantuma le barriere imposte dal genere e si trasforma in una toccante tragedia, inizialmente improbabile vista la natura della saga e la piega presa negli anni, ma che appare profondamente coerente procedendo verso la conclusione.

Un epico scontro che, chiaramente, non segnò la fine del personaggio (soprattutto per via delle proteste, che ne chiedevano a gran voce la resurrezione), ma che, anzi, sviluppò un’affezione decisamente più decisa nei confronti di quello che era diventato un simbolo della cultura popolare da ormai, al tempo, quattro decenni. Da segnalare una delle colonne sonore migliori dell’intero franchise che scandisce, dapprima energicamente, il caos, la distruzione e le esplosioni, per poi accompagnare la conclusione con una straziante litania sonora.

Fonte : Everyeye