Si è tenuta a Mosca la solenne assemblea del Concilio Popolare Russo Universale (Vsemirnyj Russkij Narodnyj Sobor), un’organizzazione fondata dall’attuale patriarca Kirill (Gundjaev) negli anni Novanta, quando era ancora metropolita di Smolensk e capo del dipartimento per gli affari esteri del patriarcato di Mosca, per rilanciare il ruolo della Chiesa nella società post-sovietica. Da allora il Sobor, che indica allo stesso tempo la comunione ecclesiale e l’aspirazione unificatrice della Russia, si riunisce in varie forme e tempistiche a livello federale e regionale, animato in particolare da uno dei più attivi sostenitori dell’ideologia ortodosso-sovranista, l’oligarca Konstantin Malofeev, fondatore del canale televisivo Tsargrad, la “città imperiale” di memoria russo-bizantina.
Questa volta la riunione doveva assumere un significato globale e determinante per il presente e il futuro della Russia, e per la seconda volta in trent’anni è stata convocata a Mosca nei luoghi di massimo valore simbolico, la cattedrale di Cristo Salvatore (dove il patriarca ha benedetto i lavori) e la Sala dei congressi del Cremlino, dove una volta si riuniva il Politburo del Comitato centrale del Pcus, la sede per eccellenza della “ideologia di Stato”, in cui i vertici del Concilio popolare dovevano assistere all’intervento del capo supremo in persona. Il presidente Putin ha però deluso le aspettative ed è apparso soltanto in video, creando una situazione piuttosto grottesca: la sua immagine risaltava in mezzo alle due grandi icone appese sullo sfondo, quella del Salvatore Nerukotvornyj (“non fatto da mani d’uomo”) e della Madre di Dio Niečajannoj Radosti (“della gioia improvvisa”) come principale ipostasi della Trinità Sovrana, mentre sotto lo schermo si illuminava un video di cupole e croci dorate delle chiese moscovite, le “quaranta quarantine” di richiamo medievale, con la scritta del “XXV Concilio”.
Il Putin virtuale si presentava quindi come essere trascendente, e all’inizio dell’assemblea il patriarca ha invitato tutti i presenti a cantare l’inno al Re Celeste (Tsarju Nebesnyj), inchinandosi con profonda devozione all’iconostasi presidenziale. La presenza soltanto “spirituale” dello zar, emergente dal bunker-frigorifero o da qualunque luogo arcano si sia palesato, ha comunque sopito un poco gli entusiasmi del Politburo conciliare, e gli applausi al discorso di Putin non sono stati accompagnati dalle ovazioni commosse di standing ovation che erano obbligatorie ai tempi dei congressi sovietici, quando la Pravda pubblicava il numero delle acclamazioni con più enfasi delle stesse parole di Brežnev o degli altri capi di partito.
Il Concilio riunisce varie categorie di persone, dai funzionari di primo livello della politica russa alle alte gerarchie ecclesiastiche (c’era un intero bosco bianco di klobuk, copricapi dei metropoliti ortodossi), militari in grande uniforme e cosacchi in divisa folcloristica, ma anche tanti giovani rappresentanti del futuro della Russia, in buona parte anch’essi vestiti in varie fogge da combattenti. La sala era comunque strapiena, e il discorso del Putin trinitario era atteso come il vero “programma ideologico” del Paese, dopo alcuni giorni di dibattito sull’opportunità dell’ideologia ufficiale dello Stato, negata dalla costituzione eltsiniana, ma ormai scontata nella Russia putiniana: l’ideologia del Russkij Mir, annunciata da Malofeev come “il quadro del mondo russo dopo la vittoria nell’operazione militare speciale”.
Il presidente ha voluto esprimere le linee ufficiali dell’incipiente campagna elettorale, ripetendo più volte il concetto fondamentale che “essere russo non si limita all’origine o alla nazionalità”. Il mondo russo presenta un “popolo multinazionale”, che in ogni modo si oppone alla disgregazione dello Stato, e difende la sua grandezza al di là di ogni confine. Non a caso la Duma di Mosca ha comunque approvato una ulteriore modifica alla costituzione, che al posto del “popolo della Federazione Russa” impone la definizione più diretta di “popolo russo”, distinguendo i russkye dai rossjane, “russi” dalle “etnie russe”, una precisazione impossibile da cogliere al di fuori della linguistica russa. Come ha affermato il deputato daghestano Sultan Khamzaev, i rossjane sono “quelli di Eltsyn”, mentre tutti i cittadini che vivono sul territorio russo sono “uomini del mondo russo”, quindi “sono russi”.
Il tema della vera russicità che comprende tutte le etnie è diventato decisivo a partire dall’invasione dell’Ucraina, anche se rimaneva in sospeso fin dalla fine dell’Unione Sovietica. È proprio questa l’unica giustificazione dell’aggressione militare a un Paese confinante, occupandolo e annettendo parti del suo territorio, calpestando tutte le norme internazionali in nome di una diversa concezione della “identità di popolo”, la samobytnost slavofila. In una riunione del Consiglio di sicurezza di qualche mese fa lo stesso Putin dichiarò di sentirsi “russo, daghestano, ceceno, inguscio, tataro, ebreo, mordvino e ossetino”, e i propagandisti russi insistono sulla “unicità del popolo russo” che comprende in sé “le tante popolazioni che vivono sul nostro territorio, e anche altrove”.
La costituzione eltsiniana del 1993, all’articolo 3, recita che “il portatore della sovranità e l’unica fonte del potere nella Federazione russa è il suo popolo plurinazionale”, senza chiarire che cosa veramente significhi questa definizione, come conseguenza dell’accordo federativo sottoscritto nel 1992 al Cremlino dai rappresentanti delle 89 regioni e soggetti federali (che oggi sono più di 100). In quella occasione Eltsyn pronunciò la famosa frase “prendetevi tutta la sovranità che siete in grado di digerire”, mentre oggi siamo all’estremo opposto, riportando ogni sovranità locale al Sobor universale. Oggi non solo le regioni non hanno la facoltà di eleggere i propri governatori, se non in meccanismi totalmente controllati dal Cremlino, ma è stata abolita la stessa denominazione di “governatori” delle regioni e “presidenti” delle repubbliche federali, tutti vengono semplicemente chiamati “capi” (golovy), termine generico sottoposto alla gerarchia della “verticale del potere” putiniana.
Da notare che nel 2016 ci fu un tentativo di approvare una legge sulla “nazione russa” che non piacque ai deputati delle varie nazionalità della Federazione, e il documento fu riscritto semplicemente sulla “politica statale nazionale”. La Russia non è semplicemente una “nazione”, e la sua ideologia non può essere chiamata “nazionalismo”, perché la sua aspirazione è più ampia e complessiva; come ripete spesso il metropolita di Crimea e “padre spirituale di Putin”, Tikhon (Ševkunov), “la Russia può essere soltanto imperiale”. In effetti, queste definizioni rimandano all’epoca dell’ideologia ufficiale sovietica, quando la costituzione brezneviana del 1977 dichiarava che “nel nostro Paese si è costituita una nuova unione di persone, il popolo sovietico”. La sigla principale della politica sovietica era dunque la družba narodov, “l’amicizia dei popoli”, che si estendeva a tutte le latitudini e i continenti.
L’Unione sovietica intendeva contrapporsi in questo modo alla tjurma narodov, la “prigione dei popoli” con cui si denunciava l’impero russo precedente, che soffocava tutte le etnie diverse da quella russa. Perfino Lenin denunciava lo “sciovinismo grande-russo” che frenava l’edificazione del comunismo e della rivoluzione universale. Ma come oggi afferma Putin, “per fortuna Stalin ha corretto questa confusione” riportando la Russia a guidare i “popoli fratelli”, anche se a costo dei “sacrifici inevitabili” dell’arcipelago dei gulag. Nell’impostazione neo-staliniana attuale, conta molto la ierarkhija narodov, la “gerarchia dei popoli” a cominciare dall’etnia-guida dei russi, per collegare quelle più leali fino a quelle più estranee come gli anglosaksy, mentre già gli europei sono più assimilabili al Sobor universale.
L’ideologia putiniana pone un problema non aggirabile da nessuno: ogni nazione può comprendere sé stessa in modalità diverse, e associarsi a comunità sovranazionali di natura molto variegata, dagli “Stati Uniti” alla “Unione Europea” che si appresta ad assimilare parti del mondo russo come l’Ucraina, la Moldavia e la Georgia, con tutte le contraddizioni ulteriori che questo comporterà, considerando i problemi ancora aperti con i Balcani e la Turchia. In alcune nazioni contano l’unità culturale o religiosa, in altre il patriottismo costituzionale e il riconoscimento delle istituzioni politiche, o i principi base della costruzione dello Stato.
Una delle espressioni più insistenti del Sobor russo, soprattutto nella sua dimensione ecclesiastica a partire dalle posizioni del patriarca Kirill, è la capacità di “istituzione dello Stato” (gosudarstvo-obrazujuščij) del popolo russo e della stessa Chiesa ortodossa, che non si basa sull’etnia, ma sui “valori tradizionali” morali e spirituali, che trascendono ogni limitazione e frontiera. Nel suo discorso “celeste” al Sobor moscovita, Putin ha ringraziato in questo senso la Chiesa ortodossa per il suo sostegno “nel Donbass e nella Malorossija” (l’Ucraina nella denominazione russa), perché “la nostra lotta ha un carattere di liberazione nazionale e internazionale”. E proprio per questo il presidente russo viene ricordato nei libri di preghiere distribuiti ai soldati come “l’Arcistratega”, il titolo di San Michele Arcangelo che guida le armate celesti nella guerra apocalittica contro il Maligno, per affermare la vittoria del Regno divino.
Fonte : Asia