Shein e Temu: cosa paghiamo per avere tutto (quasi) gratis

Con l’arrivo del Natale – in un periodo caratterizzato dall’inflazione – per la corsa ai regali molti sceglieranno di affidarsi ai siti di e-commerce dove poter acquistare oggetti e abiti spendendo il meno possibile. Ad accontentare le esigenze dei consumatori (occidentali) è Shein, che riesce a superare i suoi concorrenti grazie a metodi poco trasparenti o etici. Il colosso cinese dell’ultra-fast fashion ha conquistato i portafogli dei consumatori mettendo in vendita indumenti e prodotti di scarsa qualità (o addirittura infiammabili) a pochi euro, con sconti fino al 90 per cento. Considerando che per molti prodotti a 0,99 centesimi di euro sono già incluse le spese di spedizione al primo ordine, c’è da domandarsi quanto alto sia il margine di profitto per l’azienda cinese.

Il debutto del colosso cinese alla borsa americana

Non serve dimenarsi per trovare risposte. Il debutto alla borsa di Wall Street testimonia quanto Shein sia economicamente in salute. Il colosso cinese del “low cost” ha presentato in via confidenziale una domanda per un’offerta pubblica iniziale che potrebbe aver luogo il prossimo anno. L’azienda è probabilmente alla ricerca di una valutazione più alta dei 66 miliardi di dollari che ha ottenuto in un round di raccolta fondi a maggio. Lo scorso è stato un anno fantastico per Shein, che ha registrato 23 miliardi di dollari di ricavi e 800 milioni di dollari di utile netto e ha generato ricavi e profitti record per i primi tre trimestri del 2023, stando a quanto rilevato dal quotidiano statunitense Wall Street Journal.

E questo perché Shein ha avuto una crescita vertiginosa negli ultimi anni, dopo aver conquistato i consumatori di tutto il mondo con l’assortimento infinito dei prodotti dai prezzi stracciati e l’onnipresenza sui social network. Durante l’anno della pandemia, il nome del colosso cinese è stato il più discusso su TikTok e Youtube e il quarto brand più presente su Instagram. L’applicazione cinese di e-commerce dedicata all’abbigliamento ha scalato, negli ultimi anni, tutte le classifiche di download e di vendite.

I download dell’app su sistemi Android e iOS si riflettono sul volume di affari, tanto che Shein dall’online è passata anche all’offline. Solo nel 2022, l’azienda ha aperto nelle principali città italiane numerosi pop up store (i negozi che vengono aperti al pubblico per pochi giorni) dove permettere agli acquirenti di toccare con mano gli articoli che solitamente vengono venduti online. L’iniziativa registra sempre un grande successo di pubblico, come accaduto a Torino lo scorso marzo. “All’apertura del negozio temporaneo c’era una lunga fila di persone che ha atteso per diverse ore. Non si è solo trattato di acquistare gli articoli disponibili sull’app, ma di fare parte di un evento esclusivo che dura pochi giorni”, spiega a Today.it Federico Ostuni (in arte Barone Ostu), attivista ambientale e stilista vintage, che ha protestasto contro il fast fashion all’interno del temporary shop di Shein a Torino. “Si alimenta così un’idea di consumo basata sull’esclusività e dell’inaccessibilità che cerca di portare avanti la fast fashion”, commenta il giovane stilista torinese, che ha intrapreso una campagna per sensibilizzare le persone e gli studenti sui danni che il fast fashion provoca all’ambiente.  

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Per fidelizzare la clientela, il nome Shein campeggia anche nelle stazioni delle metropolitane di città di 100 Paesi del mondo, come quelle di Roma e Milano. Perché l’obiettivo dell’azienda è quello di vendere in tutto il mondo, strizzando l’occhio alle giovani generazioni che crescono scoprendo il loro stile su piattaforme come Instagram e Pinterest. 

La ricetta del successo

Il successo del colosso cinese, però, ha i suoi lati oscuri. Fondata nel 2012 in Cina con il nome SheInside, l’azienda ha cambiato core business nell’arco di pochi anni. Grazie all’ingegno del suo misterioso fondatore Chris Xu, da startup dedicata agli abiti da sposa Shein è diventata la fabbrica dove riprodurre capi per tutti con tagli molto simili a quelli degli stilisti più famosi.

L’ascesa nel mercarto internazionale è stata possibile grazie al facile accesso alle catene di approvvigionamento globali presenti in Cina e alla consegna diretta al cliente, senza che quest’ultimo passi per un negozio fisico. Infatti, il colosso cinese dell’ultra fast fashion deve la sua crescita a un modello di business che si avvicina a quello di Amazon: Shein non è un’azienda di abbigliamento, ma è un hub che riunisce circa 6mila fabbriche cinesi che producono vestiti.

C’è pero un elemento che spiega l’efficienza di questa struttura ramificata nel Paese asiatico ed è un complesso sistema di algoritmi e analisi dati di un geniale software. Come funziona? Inizialmente il software cattura le tendenze in tempo reale delle ricerche di capi di abbigliamento effettuate dagli utenti sul web e poi invia una segnalazione al team di Shein che ordina e commissiona un inventario. Secondo un’inchiesta del magazine online Rest of World, il progetto dell’articolo viene commissionato tramite software, che sceglie di realizzare il prodotto sulla base di quelli già presenti nelle fabbriche oppure partendo da un disegno originale. Puntando sulle offerte lampo, solo pochi capi vengono immessi nel mercato, così da valutare il reale interesse dell’acquirente. Se l’algoritmo raccoglie dati positivi sul capo, si procede con la produzione in massa del prodotto. E così via: il software riparte per un altro oggetto da mettere in vendita. 

A tutto questo si aggiunge un’operazione pubblicitaria accattivante sui social network, arricchita dalla presenza di influencer professionisti, il cui unico scopo è fare e farsi pubblicità. La tecnica è semplice ed è ormai diventata una forma d’arte, nota come “Shein Haul” (letteralmente “bottino di Shein”): a beneficio di telecamere giovani blogger aprono pacchi e scatoloni pieni zeppi di vestiti e oggetti comprati a bassissimo prezzo su Shein. Così in pochi secondi, con brevi video condivisi e visualizzati su TikTok, si attiva la macchina del consumo eccessivo per riempire armadi già traboccanti, spendendo pochi euro e comodamente da casa. 

@jodi.opuda I got 91 items total so stay tuned for all the parts:) #shein #sheinhaul ♬ Triple S – YN Jay & Louie Ray

Poco importa se i capi avranno vita breve e verranno usati una, al massimo due volte, prima di finire in discarica: ogni anno nel mondo vengono generati 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui solo il 15 per cento viene riciclato. Il prodotto poi verrà smaltito, rilasciando sostanze tossiche e chimiche nocive. Secondo un rapporto di Greenpeace, il 15 per cento dei capi del marchio di ultra fast fashion Shein – analizzati in laboratorio da Greenpeace Germania nell’ambito di un’indagine su 47 prodotti acquistati in Italia, Austria, Germania, Spagna e Svizzera – ha fatto registrare quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee. In altri quindici prodotti (32 per cento) le concentrazioni di queste sostanze si sono attestate a livelli comunque preoccupanti.

Se comprate questa marca siete complici anche voi 

Oltre alla presenza di sostanze chimiche tossiche, la produzione di abbigliamento a basso costo è dannosa per l’ambiente a causa delle emissioni di carbonio e dell’abbondante uso di acqua. L’industria della moda è responsabile di circa il 10 per cento delle emissioni globali di gas serra e rappresenta una delle principali cause di inquinamento delle acque in tutto il mondo. Inoltre, per realizzare una singola T-shirt di cotone sono necessari in media 2.700 litri d’acqua (la quantità di acqua che beve una persona in 2 anni e mezzo). Lo studio dell’organizzazione ambientalista evidenzia che oltre l’80 per cento degli impatti ambientali si verificano nei paesi del Sud del mondo, dove viene prodotta la stragrande maggioranza dei vestiti che finiscono sul mercato globale. 

Le condizioni disumane dei lavoratori

Grazie alla precisione dell’algoritmo, alla ricca vetrina online e alla presenza di materie prime in loco, Shein è riuscita ad abbattere i costi e a garantire una ricca offerta di capi di tendenza a prezzi stracciati. Ma la sua ascesa nel marcato internazionale ha sollevato non pochi dubbi. Oltre all’incitamento al consumo eccessivo e all’inquinamento ambientale, il colosso cinese è accusato di sfruttamento del lavoro e violazione dei diritti d’autore. Brand come Levi Strauss e Dr. Martens hanno citato in giudizio l’azienda per violazione del marchio, mentre molti consumatori hanno denunciato la presenza di oggetti controversi nello store, come collane con la svastica.

Poco importa, però, se il software proprietario di Shein sa prima dell’acquirente cosa comprerà quest’ultimo. “Inside the SHEIN Machine: UNTOLD”, il documentario dell’emittente britannica Channel 4 sull’azienda cinese, racconta come l’app e il sito web del colosso dell’ultra fast fashion siano progettati con precisione per portare l’utente a uno “scorrimento infinito” del feed. Poi entra in gioco una tecnica di marketing che spinge l’acquirente a premere il tasto “paga” senza pensarci troppo: spedizione gratuita per un determinata spesa totale o sconti incredibili spinti da un timer in scadenza per enfatizzare la disponibilità limitata dell’articolo.

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Quello che le influncer e le protagoniste di “Shein Haul” non dicono è la costante violazione dei diritti dei lavoratori nelle fabbriche legate al colosso cinese. I dipendenti lavoravano fino a 18 ore al giorno, durante i fine settimana, al costo di solo tre centesimi per articolo, con un solo giorno libero al mese. Anche un’inchiesta dell’ong svizzera Public Eye ha denunciato che i dipendenti di sei fabbriche nella città di Guangzhou lavoravano 75 ore settimanali e vengono retribuiti per ogni singolo prodotto confezionato.

Non solo. I dipendenti vivono e lavorano in ambienti simili a trappole mortali. Nelle aziende, infatti, le finestre sono sbarrate, mancano le uscite di emergenza e le rampe delle scale sono troppo strette per consentire ai lavoratori di uscire rapidamente dai locali in caso di incendio. Non vengono quindi rispettate le disposiozioni stabilite dal codice di condotta di Shein per i fornitori dei suoi articoli. Nel documento, presente sul sito del colosso cinese, si specifica l’obbligo dei “partner fornitori a garantire un ambiente di lavoro sicuro, igienico e sano”. Secondo la britannica BBC, l’azienda cinese effettua valutazioni trimestrali dei propri fornitori, coinvolgendo talvolta revisori esterni. Evidentemente, c’è ancora molto lavoro da fare se i dipendenti delle aziende fornitrici di Shein denunciano situazioni disumane.  

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Temu come Shein: cosa paghiamo per avere tutto (quasi) gratis 

Shein non è l’unica azienda cinese dell’ultra fast fashion che preoccupa per il suo modello produttivo e lavorativo. Tutte le attenzioni ora sono rivolte anche su Temu, che per pubblicità e strategia di marketing si avvicina al suo competitor fondato da Chris Xu. Dal suo debutto nel settembre 2022, l’azienda cinese ha accumulato circa 120 milioni di utenti attivi mensili, il 43 per cento dei quali provenienti dagli Stati Uniti. Per Temu si sta per chiudere un anno d’oro, registrando entrate che oscillano tra i 14 e i 16 miliardi di dollari. Dal suo lancio negli Stati Uniti, Temu è ora disponibile in 48 Paesi dell’Europa, Medio Oriente, Sud-est asiatico e Australia. Pdd Holdings, società madre di Temu, lo scorso 28 novembre ha superato le previsioni sui ricavi del terzo trimestre, grazie ai forti sconti che hanno incrementato le vendite sulle sue piattaforme di e-commerce in Cina e all’estero, facendo salire le sue azioni quotate negli Stati Uniti di quasi il 14 per cento in negoziazione pre-mercato.

Poi c’è Miniso, un’azienda con sede a Guangzhou che vende articoli per la casa economici ma alla moda, presente in più di 100 Paesi con oltre 6mila negozi. Nel 2022, oltre il 95 per cento dei prodotti venduti aveva un prezzo inferiore a 7 dollari e un’etichetta che avvertiva della presenza di elementi tossici.

La mega discarica dove finiscono i vestiti dell’Europa: “Un disastro ambientale”

Il mantra è solo uno. “Arricchirsi è glorioso”, aveva detto il piccolo timoniere Deng Xiaoping per lanciare le riforme di mercato che hanno reso la Cina la seconda potenza economica al mondo. Lo slogan vale ora per i giganti dell’ultra fast fashion, che si arricchiscono a discapito della tutela ambientale e del diritto dei lavoratori.

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Fonte : Today