Il Custode francescano di Terra Santa sulla situazione tra israeliani e palestinesi: “Vediamo crescere la diffidenza tra le due comunità anche nella vita quotidiana, temo un nuovo esodo di cristiani quando finirà la guerra. Chi nella comunità internazionale vuole aiutarci non faccia il tifoso, ma riconosca la sofferenza degli uni come degli altri in questa guerra in cui abbiamo già perso tutti”.
Milano (AsiaNews) – La tregua andata avanti per sette giorni da stamattina non regge più a Gaza e nel Sud di Israele. Il governo Netanyahu e Hamas si accusano a vicenda su chi l’abbia violata, ma il dato di fatto è che l’intesa negoziata con la mediazione di Qatar ed Egitto e che in questi giorni ha permesso la liberazione di 105 ostaggi tra israeliani e lavoratori stranieri in cambio di circa 240 prigionieri palestinesi si è bloccata. Sono ripresi i raid dell’aviazione israeliana e il lancio di razzi dalla Striscia. Anche se i mediatori restano al lavoro per arrivare a una nuova proroga.
Che cosa hanno rappresentato questi giorni di tregua? Come stanno vivendo queste settimane le comunità cristiane della Terra Santa? E quali passi per uscire davvero da questo vicolo cieco? Sono le domande che abbiamo rivolto l’altra sera a fra Francesco Patton, Custode francescano di Terra Santa, in questa intervista diffusa durante la serata “Voci di pace dal cuore della guerra” organizzata a Milano presso il Centro Pime.
“Temevamo tutti che finita la tregua riprendesse l’azione militare – commenta fra Francesco Patton -. Ma la tregua ha comunque mostrato che quando chi lavora dietro le quinte lo fa negoziando efficacemente, poi si riescono a ottenere dei risultati. Spero che si vada avanti a negoziare per arrivare alla liberazione di tutti gli ostaggi. E si giunga anche a risultati ulteriori e più significativi per un cessate il fuoco stabile”.
Come vivete da cristiani di Terra Santa queste settimane?
“Per i cristiani è un momento molto difficile, soprattutto per quelli di Betlemme e della Cisgiordania: si trovano in una situazione in cui non sono in grado di lavorare. All’inizio i professori stessi delle nostre scuole non riuscivano ad arrivare, adesso ci mettono tre ore per percorrere tragitti un quarto d’ora. Chi vive a Betlemme, senza pellegrini soffre letteralmente la fame. E poi in Israele c’è la difficoltà della convivenza: l’attacco di Hamas il 7 ottobre ha generato una diffidenza all’interno della società tra la componente arabo israeliana e quella ebraico israeliana che mette alla prova i cristiani, nuovamente tentati di abbandonare la propria terra d’origine. Temo che quando sarà finita la guerra ci sarà una nuova ondata di emigrazione dei cristiani dalla Terra Santa”.
Che volti assume questa diffidenza?
“Non riuscire più a comunicare normalmente, per esempio. È l’esperienza che le persone mi raccontano parlando del loro posto di lavoro: si è rotto qualcosa. Ma si vede anche per strada: si è guardati con diffidenza se non si è immediatamente identificabili come membri del proprio gruppo. Lo stesso succede nei supermercati: chi può si evita la cassiera dell’altra etnia. Sono atteggiamenti che toccano la vita concreta e quotidiana delle persone”.
E voi che da sempre lavorate per l’incontro come rispondete?
“Andiamo avanti a lavorare per la convivenza e la reciproca accettazione. Nelle nostre scuole è solitamente ridotta a due elementi, i cristiani e i musulmani. Ma – per esempio – nella nostra scuola di musica, il Magnificat, abbiamo la maggior parte degli insegnati che sono ebrei israeliani e la maggior parte di studenti che sono palestinesi, cristiani e musulmani. È un ambiente che secondo me costituisce un test della possibile convivenza. Subito dopo il 7 ottobre ci sono state difficoltà, ma professori e studenti sono riusciti a ritrovare almeno quella sintonia e reciproca accettazione che permette agli uni e agli altri non solo di fare il proprio lavoro, ma anche di entrare in relazione. Continuiamo a cercare di essere vicini alle persone: sappiamo che quando l’emotività è molto forte, da una parte e dall’altra, è meglio parlar poco e ascoltare molto. Bisogna lasciare alle emozioni lo spazio per esprimersi. Come dice Qoelet: c’è un tempo per parlare e un tempo per tacere. Arriverà anche il tempo per tornare a ragionare in termini di valori e non semplicemente di emozioni”.
Per dire che cosa?
“Sposiamo la linea di papa Francesco che parla di essere equivicini anziché equidistanti. Bisogna sentire la sofferenza degli uni e degli altri, riconoscere a dignità a entrambe queste sofferenze. Noi che siamo in qualche modo elementi terzi, meno emotivamente coinvolti, possiamo percepirlo. Ma bisognerà che poi, un domani, anche gli uni e gli altri riconoscano la reciproca sofferenza. Che è poi quello che diceva in un’intervista all’Osservatore Romano la portavoce degli ostaggi: dobbiamo arrivare noi a capire la sofferenza dei palestinesi e i palestinesi a capire la nostra sofferenza di ebrei. Finché non ci si arriverà si continuerà semplicemente ad avere paura dell’altro e la propria sofferenza, anziché compassione, genererà desiderio di vendetta, odio, rivalsa, divenendo un tumore che corrode dall’interno le persone e anche la società”.
Che cosa può fare concretamente la comunità internazionale per aiutare israeliani e palestinesi a uscire da questo vicolo cieco?
“È essenziale che il suo sguardo non sia quello dei tifosi: non è una partita di calcio dove si vince una coppa; qui muoiono le persone, è una tragedia. Bisogna che tutti – da chi ha responsabilità politiche fino alla gente comune – smettano di avere l’atteggiamento dei tifosi e assumano lo sguardo di chi cerca di comprendere la sofferenza degli uni e degli altri. Nessuno vince. I morti sono così tanti che se anche la guerra finisse oggi abbiamo già perso tutti. E poi aiutare anche a fare passi concreti per sbloccare la situazione. Con la tregua si è visto quanto sia importante la pressione delle potenze maggiori: l’influenza degli Stati Uniti e di una parte dei Paesi europei su Israele, la pressione dell’Egitto e dei Paesi del Golfo su Hamas. Se si è riusciti nel poco, io credo che ora si dovrebbe osare nel tanto. Oggi non si può parlare di riconciliazione. Ma prima di arrivarci ci sono tanti passaggi che permettono comunque di salvare le persone, evitare che i conflitti si risolvano facendo attentati o bombardando. In questo la comunità internazionale ha la responsabilità di accompagnare i processi. Perché, lo sappiamo tutti, alla fine le alternative sono solo due: o si arriva all’accettazione reciproca tra israeliani e palestinesi oppure si continuerà a cercare la via dell’eliminazione dell’avversario. Una via impossibile: vorrebbe dire teorizzare la possibilità del genocidio”.
Siamo all’inizio dell’Avvento e proprio in Terra Santa infuria la guerra. Che cosa si attende dai credenti in questo cammino verso il Natale?
“L’Avvento è il tempo della speranza: i credenti devono essere quelli che, nonostante tutti gli elementi avversi, continuano a sperare anche contro ogni speranza che ci sia una via d’uscita. Non avviene dalla sera alla mattina o in modo superficiale: non pensiamo a soluzioni magiche; la speranza ha sempre bisogno di uomini di buona volontà che lavorino in una certa direzione. Ma se noi cristiani oggi non crediamo che sia possibile, vuol dire che non crediamo più nella potenza trasformatrice della Passione, morte e resurrezione di Gesù. Oltre a questo, però, dai cristiani mi aspetto altre due cose: innanzi tutto che non facciano i tifosi. E poi la solidarietà concreta: non siamo angeli, questi nostri fratelli oggi hanno bisogno anche di risorse economiche per andare avanti. Per questo dobbiamo prometterci anche che, appena sarà possibile, torneremo come pellegrini in Terra Santa, per dare la possibilità ai cristiani che vivono in Cisgiordania di vivere del proprio lavoro. E come organizzazioni cristiane, quando sarà finita la guerra, troviamo il modo di intervenire per aiutare a ricostruire, rimettendo in moto attività ma anche progetti che educhino all’accoglienza reciproca, alla convivenza. Di questo qui c’è estremamente bisogno”.
Fonte : Asia