Diabolik – Chi sei? Recensione: l’atto finale si salva in corner

Non era iniziata in modo incoraggiante l’avventura cinematografica di Diabolik firmata dai Manetti Bros. Già a partire dall’addio di Luca Marinelli nei panni del Re del Terrore dopo il primo capitolo della saga, nonostante poi tutto sommato l’operazione in sé fosse riuscita a convincerci (la recensione di Diabolik è dietro l’angolo!). Ma le cose precipitarono in fretta con il secondo episodio, confuso, disorganico, meno ispirato (ed eccovi la recensione di Diabolik Ginko all’attacco).

Arriviamo al terzo e ultimo atto: Diabolik – Chi sei?, che cala il sipario (almeno per adesso) sull’adattamento filmico tratto dal fumetto cult delle sorelle Giussani. Un finale per certi versi atipico e anticlimatico, che torna alle origini dell’anti-eroe italiano e chiude degnamente il cerchio delle sue avventure.

Diabolik, chi sei?

Questa volta il furto di un prezioso gioiello non è che il pretesto iniziale per imbastire un racconto diverso dal solito, perché Clerville si prepara ad affrontare una minaccia ben peggiore e più spietata dell’iconico ladro in calzamaglia.

Sia Diabolik (Giacomo Giannotti) che Ginko (Valerio Mastandrea) si ritrovano braccati da una pericolosa banda di terroristi che semina il panico in città. Un gruppo di individui violenti e senza scrupoli molto abile nel far perdere le proprie tracce, ma soprattutto abbastanza temerario da affrontare sia il criminale che l’ispettore. Ed è per questo motivo che, pur rimanendo ben centrato sul rapporto tra il protagonista e Ginko, il peso della storia si sposta soprattutto sulle sue controparti femminili: Eva Kant (Miriam Leone) e Altea (Monica Bellucci) devono a loro volta collaborare per trarre in salvo i loro amati. E nel frattempo, l’insolita collaborazione spinge Ginko a rivolgere al suo nemico giurato la domanda più semplice ma importante di tutte: Diabolik, chi sei? Riprendendo l’onomonimo albo a fumetti della testata classica, per la precisione il numero 107 del 2003, i Manetti Bros. ripercorrono la genesi del Re del Terrore sin dalla sua infanzia, mostrandoci per la prima volta sul grande schermo le origini segrete di Diabolik.

Un buon finale?

Diabolik – Chi sei?, pur imbastendo l’epopea finale della trasposizione cinematografica, alla fine funziona proprio perché è una storia “piccola”. Meno ambiziosa, da un punto di vista dell’intreccio e del “caso” da risolvere, e proprio per questo più coerente: non di meno, spostando il baricentro della trama dai due Arci-nemici alle loro alleate-amate, la pellicola riesce finalmente a dare più spazio anche ai personaggi secondari, donando più carattere e più vita alla Clerville per il grande schermo piuttosto che affidarne tutto il peso ai due iconici protagonisti.

Allo stesso tempo, la scelta di adattare il numero 107 della serie a fumetti, concentrando il cuore pulsante di tutto il racconto sul passato di Diabolik e sui suoi primi anni di attività, porta una ventata d’aria fresca ad un terzo capitolo che avrebbe rischiato altrimenti di risultare la copia scialba degli episodi precedenti (un po’ come accaduto in Ginko all’attacco). Alla buona gestione narrativa aggiungiamo anche la regia dei Manetti Bros, nuovamente ispirata, sulla scia del primo capitolo. Un approccio che ricalca lo stile del duo, un mix tutto sommato riuscito tra una cornice squisitamente vintage e una direzione a metà strada tra il pop e il noir. Un linguaggio che funziona soprattutto nei segmenti ambientati durante il passato di Diabolik, girati in bianco e nero e caratterizzati da una messinscena gradevole e impattante, intrisa di simbolismi e allegorie che i fan dell’opera originale potranno sicuramente apprezzare.

Resta il grande problema di fondo che il Diabolik targato Manetti Bros ha evidenziato sin dall’inizio: la sua doppia natura, in termini di messinscena ma soprattutto di performance attoriali. È opportuno ribadire che anche questo terzo atto, per quanto più riuscito rispetto al suo predecessore, soffre dei medesimi difetti: un approccio artistico che, pur guardando al cinema di genere e alla “firma d’autore”, rimane intrappolato in un linguaggio tipico della “fiction all’italiana”, fatto di performance plateali, se non addirittura fin troppo sopra le righe per essere prese sul serio.

Dobbiamo anche riconoscere l’intento prettamente “vintage” dell’operazione, che in ogni caso rimane ambigua e controversa. E quindi, forse, dovremmo porre a Diabolik un’altra domanda: a chi ti rivolgi? Ad un pubblico storico, maturo, cresciuto con gli albi delle Giussani, e quindi più incline ad un approccio più classico? O alle nuove generazioni, per le quali è necessario adattare e modernizzare un certo tipo di linguaggio? La domanda è complessa, la risposta pure, ma una cosa mi sembra certa: questa trilogia di Diabolik, nella sua interezza, è stata in parte un’occasione sprecata

Fonte : Everyeye