Il domenicano francese è responsabile dei lavori di restauro alla chiesa di Nostra Signora dell’Ora, uno dei monumenti simbolo della ex roccaforte dello Stato islamico. Una ricostruzione che non riguarda solo gli edifici, ma coinvolge anche il tessuto sociale e le relazioni con i musulmani. Un messaggio per la Terra Santa che soffre per il conflitto fra Israele e Hamas.
Milano (AsiaNews) – Da Mosul a Gerusalemme, un filo rosso di sangue collega le diverse anime del Medio oriente: “La guerra è sempre una sconfitta per l’umanità”, ma come insegna quella che a lungo è stata la roccaforte del califfato islamico e “ha toccato il fondo per rinascere, la vita è più forte della morte”. P. Olivier Poquillon, domenicano francese, conosce bene la realtà della metropoli del nord dell’Iraq, un tempo cuore economico e commerciale del Paese. Egli, infatti, dal 2019 è responsabile dei lavori di restauro di uno dei più importanti e significativi luoghi cristiani: la chiesa (e santuario) di Nostra Signora dell’Ora (al-Saa’a), nel cuore della città vecchia, simbolo di una comunità un tempo composta da circa 250mila anime e che si è andata svuotando nel tempo, fino quasi a sparire sotto Daesh [acronimo arabo per l’Isis]. Al tempo stesso guarda con attenzione, e preoccupazione, agli eventi delle ultime settimane che stanno insanguinando la Terra Santa con la guerra in atto fra Israele e Hamas a Gaza, con le inevitabili ripercussioni sulla città santa dove il sacerdote ricopre da poco l’incarico di direttore della Scuola biblica di Gerusalemme. “Per i credenti – sottolinea ad AsiaNews – ogni battaglia, ogni conflitto è una perdita ma come ricorda san Tommaso d’Aquino, e come mostra Mosul con la sua storia, bisogna sempre tornare a vivere”.
Una città ferita
Mosul è stata per molto tempo, e in parte lo è tuttora, una città ferita dalla guerra e lacerata dalle violenze etniche e confessionali, culminate nell’ascesa dell’Isis nell’estate 2014 che l’ha eretta a roccaforte e capitale del cosiddetto “califfato islamico”. Ciononostante, la città e i suoi abitanti hanno saputo reagire e superare la fase più buia e cruenta e oggi, a fatica, cercano di ripartire. E risanare sin dalle fondamenta la convivenza sociale, partendo dalla ricostruzione di edifici e luoghi simbolo distrutti dalla follia jihadista. Mosul, che in arabo significa “il punto di collegamento”, è una delle città più antiche del mondo e per millenni è stata un luogo simbolo e un centro strategico per la sua posizione lungo le tratte che collegavano nord e sud o est e ovest nella rotta fra Europa e Asia, attraverso la piana di Ninive. Un crocevia che le ha permesso di ospitare un gran numero di persone, e comunità, con origini, etnie e credenze religiose diverse che hanno saputo convivere a lungo, prima dell’invasione statunitense che ha innescato le violenze etniche e confessionali. Una lunga deriva di sangue e violenze, culminate infine nell’ascesa di Daesh. Eliminati, almeno sul piano militare, i miliziani jihadisti restano i danni e le devastazioni, alle pietre come alle persone. Ecco perché oggi è importante far rinascere la metropoli e i suoi abitanti: “La ricostruzione avrà successo e l’Iraq riacquisterà la sua influenza – ha sottolineato la direttrice generale Unesco Audrey Azoulay – solo se verrà data priorità alla dimensione umana; l’istruzione e la cultura sono gli elementi chiave. Sono forze di unità e riconciliazione”.
La lenta rinascita
Mosul, un tempo cuore economico, vive una fase di lenta rinascita come racconta p. Olivier: la fiducia nella società, fra cristiani e musulmani, “non si può stabilire con una legge o per decreto” spiega, ma va “risolta nelle difficoltà” come ha ricordato papa Francesco in Iraq nel 2021, partendo dalla “comune appartenenza” ad Ur e Abramo. “La situazione a Mosul – prosegue il religioso – si è evoluta: nel 2017, alla liberazione [dall’Isis], circa l’80% della città si presentava distrutta, non vi erano più cristiani, curdi o yazidi, fatta eccezione per quanti erano ridotti in schiavitù”. Oggi “anche se a livello demografico la realtà è cambiata di poco” rispetto agli ultimi 20 anni, “non vi sono più combattimenti” e la ricostruzione “avanza spedita”. Negli ultimi cinque anni “molto si è fatto, non solo a livello di monumenti o edifici simbolo” come il convento dei domenicani e la grande moschea di al-Nouri, ma anche nel ripristino di servizi – acqua, elettricità, rete fognaria – e per una convivenza “a livello di popolazione”. L’Unesco, nell’ambito del programma “Revive the spirit of Mosul”, ha consegnato di recente al Sunni Endowment of Iraq 16 case storiche restaurate di cui sette nei pressi della moschea al-Nouri. Tuttavia per una ripresa completa di quella che un tempo era la capitale dell’impero assiro vi sono ancora dei nodi irrisolti da sciogliere: funzionari corrotti e debolezze istituzionali; cellule Isis ancora attive e lupi solitari pronti a colpire, soprattutto nelle aree rurali, oltre a tentativi di sequestro; politica interna ancora oggi caotica e corrotta, che può rallentare l’iter di ricostruzione; infine, mine sparse nel terreno in diverse zone, periferiche e centrali.
Nostra Signora dell’Ora
P. Olivier Poquillon è nato a Parigi, in Francia, nel 1966 e dopo aver compiuti studi in diritto internazionale ha iniziato il noviziato presso i domenicani nel 1994, per poi essere ordinato sacerdote nel 2001. Tra gli incarichi ricoperti quello di esperto della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa. Egli ha anche presieduto la Commissione francofona di Giustizia e pace dell’Ordine. Dopo aver insegnato all’università di Mosul è stato delegato permanente dell’Ordine all’Onu dal 2008 al 2013, priore del convento domenicano di Strasburgo, parroco latino per stranieri nel nord Iraq e responsabile dei lavori – finanziati dagli Emirati Arabi Uniti e realizzati dall’Unesco – alla chiesa di Nostra Signora dell’Ora. Un edificio risalente alla seconda metà del XIX secolo frutto della missione domenicana in Mesopotamia, che ha portato nel 1880 alla costruzione della prima torre campanaria in una chiesa, col contributo dell’allora imperatrice Eugénie. Una realtà “molto importante”, racconta, perché “ha accolto il primo orologio della Mesopotamia”, formato da “quattro quadranti come i punti cardinali” per mostrare che “ovunque lo si guardi, l’ora è uguale per tutti”. Esso “scandisce il tempo di Dio per cristiani e musulmani, e ciascuno dovrà rendere conto”, per questo racchiude “una dimensione religiosa e spirituale, sociale e culturale”. Ed è “motivo di vanto”, perché Mosul “è la prima città” della regione “con un meccanismo ad alta tecnologia”.
Dalla sconfitta (militare) dell’Isis, che ha portato alla liberazione di Mosul e al ritorno di una piccola parte dell’originaria comunità cristiana, i sacerdoti hanno già celebrato tre volte la messa nella chiesa. La prima di espiazione, perché i miliziani l’avevano usata come tribunale e luogo di torture e assassinii. La seconda in occasione della visita del card. Kurt Koch, prefetto del dicastero per la Promozione dell’unità dei cristiani, e la terza con un gruppo di giovani della comunità domenicana del Kurdistan, congregazione che si è distinta nella tutela e preservazione del patrimonio culturale e artistico salvandolo dalla follia iconoclasta jihadista. Le prossime celebrazioni si terranno il primo di gennaio, Giornata mondiale della pace, per la visita del Maestro dell’Ordine con una funzione solenne “per la famiglia domenicana, presenti frati e suore”. I primi religiosi sono giunti nell’area all’epoca della fondazione, nel XIII secolo, e a Mosul hanno stabilito il primo convento per poi subire il martirio. Cinque secoli più tardi è Benedetto XIV a rilanciare la missione dando vita a nuove comunità, fra cui quella a Qaraqosh, nella piana di Ninive, che nell’estate 2014 è dovuta fuggire. Ma che oggi rinasce e vuole diventare segno di speranza per quanti oggi soffrono, anche a Gerusalemme dove oggi sembra prevalere una logica di morte.
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Fonte : Asia